Dopo solamente un mese dall’inizio del secondo mandato di Donald Trump, le politiche climatiche e ambientali statunitensi sono velocemente tornate indietro nel tempo, a inizio 2017, quando la prima ventata di negazionismo trumpiano revocò oltre 125 norme ambientali.

Dal 20 gennaio 2025 ci risiamo: dal secondo ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi alla strategia “di dominio energetico” a base di Oil & Gas Made in USA, fino ai tagli del personale di diverse agenzie federali, tra cui l’Environmental Protection Agency (EPA).

Oggi però Trump non nega più, almeno pubblicamente, l’esistenza del cambiamento climatico: semplicemente ne ignora le cause e gli effetti, smantellando tutte le leggi che secondo il movimento MAGA (Make America Great Again) sono motivate dall’“ideologia green”.

Tra i primi ordini esecutivi dell’amministrazione Trump c’è il congelamento dei finanziamenti stanziati attraverso l’Inflation Reduction Act (IRA), considerata la più grande mobilitazione di fondi per il clima della storia statunitense. Nonostante i ricavi record dell’industria petrolifera durante l’era Biden, gli incentivi green dell’IRA hanno contribuito a espandere la capacità di energia rinnovabile statunitense fino a 48,2 Gigawatt, un primato nazionale.

Gli USA fuori dagli Accordi di Parigi 

Un’altra mossa − ampiamente attesa, considerata l’avversione di Trump per i negoziati internazionali sul clima − è l’uscita degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi. “Mi ritiro immediatamente dall’ingiusto e unilaterale accordo sul clima di Parigi, una truffa,” ha dichiarato Trump, aggiungendo che “gli Stati Uniti non saboteranno le proprie industrie mentre la Cina inquina impunemente”. Un annuncio per altro arrivato poco dopo che il 2024 è divenuto ufficialmente il primo anno in cui la temperatura media globale ha superato di 1,5°C il livello preindustriale.

L'ordine esecutivo Putting America First in International Environmental Agreements mira a limitare i contributi finanziari degli Stati Uniti per mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici a livello globale. In pratica l’amministrazione cessa o revoca immediatamente qualsiasi impegno finanziario assunto nell'ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. A differenza del 2017, quando la prima uscita dall’Accordo di Parigi fu annunciata ma per entrare in vigore solo tre anni dopo, nel 2020, questa volta il ritiro avrebbe effetto a un anno di distanza dalla notifica.

La mossa scalfisce ancora una volta l’immagine degli Stati Uniti come potenziale leader climatico mondiale, oltretutto dopo gli ambiziosi NDC (Nationally Determined Contributions, gli impegni climatici nazionali) proclamati da Biden durante gli ultimi giorni da presidente. Non sono ancora chiare le conseguenze che il ritiro avrà sulle politiche climatiche dei governi federali e delle città. Ciò che è certo, però, è che gli ordini esecutivi di Trump ostacoleranno gli sforzi di ridurre le emissioni del 61-66% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2035.

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Aumentare la produzione di gas e petrolio? Non così in fretta

Il 14 febbraio Trump ha firmato un ordine esecutivo per creare un nuovo Consiglio nazionale per il dominio energetico. L’obiettivo è aumentare la produzione di petrolio e gas del paese. L’approccio “drill, baby, drill” di Trump avrebbe lo scopo di abbassare i prezzi dell’energia e aumentare l’offerta di combustibili fossili. Per farlo il nuovo governo vuole ridurre i tempi di autorizzazione per le trivellazioni su terreni federali, velocizzare i processi di licenza per l’esportazione di gas liquefatto e, tra le altre cose, togliere le sanzioni al petroregime di Maduro in Venezuela.

Il piano però, secondo diversi esperti del settore energetico, sarebbe più facile da promettere che da implementare. Secondo il Center for American Progress, la produzione di petrolio e gas del paese ha già raggiunto livelli record sotto l’amministrazione Biden e gli investitori ora sarebbero intenzionati a raccogliere i frutti del boom, più che finanziare rischiosi progetti in Alaska.

Forze di mercato come l'OPEC+, l'alleanza dei paesi produttori di petrolio che ha il potere di influenzare i prezzi al barile, potrebbero ostacolare l’espansione fossile statunitense. Inoltre le promesse di un permitting di estrazione accelerato non fa dormire sonni tranquilli alle imprese e agli investitori. “C'è sempre il rischio che alcune aree di interesse possano essere chiuse dopo il prossimo ciclo elettorale”, ha dichiarato a Reuters Dustin Meyers dell’American Petroleum Institute.

I licenziamenti nelle agenzie federali ambientali

L'amministrazione Trump e il suo neonato Dipartimento per l'efficienza governativa (DOGE) presieduto da Elon Musk hanno proposto tagli radicali a diverse agenzie federali, tra cui l'Agenzia per la protezione dell'ambiente (EPA). All'inizio di febbraio, l'EPA ha comunicato a più di 1.000 dipendenti “in prova”, ovvero in agenzia da meno di un anno, che avrebbero potuto essere licenziati immediatamente.

La riduzione del personale potrebbe avere un impatto sulla velocità e sulla capacità dell'organizzazione di rispondere alle crisi, come affrontare i rischi per la salute ambientale o implementare le normative.

Lo scorso 14 febbraio invece il DOGE ha licenziato 1.000 persone del National park service e altre 3.400 persone del Servizio forestale degli Stati Uniti, due agenzie federali che supervisionano oltre 1 milione di chilometri quadrati di terre, una dimensione pari a quella degli stati del Texas e del Montana insieme.

Questi licenziamenti lasciano un vuoto enorme nelle attività essenziali di conservazione delle aree naturali: da mantenimento, pulizia dei sentieri e gestione dei rifiuti a sicurezza e formazione delle persone che visitano questi luoghi, fino alla gestione di emergenze ambientali, come gli incendi sempre più frequenti.

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Tagli alla ricerca sulle conseguenze della crisi climatica

Sempre in nome di un efficientamento delle risorse pubbliche, il 24 gennaio il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo chiedendo una valutazione dell’efficacia della Federal Emergency Management Agency (FEMA), l’ente federale per la gestione delle emergenze climatiche e non solo.

Durante la visita alle vittime dell’uragano Helene, nella Carolina del Nord, ha proposto di “sbarazzarsi” della FEMA, una decisione che potrebbe avere un impatto sulla capacità degli stati federali di riprendersi dagli eventi climatici estremi che stanno diventando più intensi e frequenti a causa dei cambiamenti climatici. Il consiglio nominato, che comprenderà il segretario per la sicurezza interna e il segretario alla difesa, avrà un anno per valutare “l’attuale capacità della FEMA di affrontare in modo capace e imparziale i disastri che si verificano negli Stati Uniti”.

Anche la ricerca sugli effetti del cambiamento climatico potrebbe essere depotenziata dall’uragano Trump. Il nuovo capo della sanità pubblica americana Robert F. Kennedy Jr, nipote del presidente John Fitzgerald Kennedy assassinato a Dallas nel 1963, ha da poco deciso che lo stato non finanzierà più 3 programmi di ricerca sugli effetti sanitari della crisi climatica presso il National Institutes of Health. Questi programmi non si concentrano sulle cause del cambiamento climatico, bensì su come proteggere le persone dalle conseguenze sulla salute di eventi climatici estremi.

Per esempio, la Climate Change and Health Initiative, i cui riferimenti sul web sono stati cancellati, promuove lo studio degli impatti a lungo termine degli incendi boschivi sulla salute, delle strategie per combattere la malaria (una minaccia crescente negli Stati Uniti con l'aumento delle temperature) e piani per affrontare l'asma dei bambini in seguito agli uragani che indirettamente aggravano la malattia perché causano la diffusione di muffe e funghi.

Oltre alla sospensione del rilascio di licenze per costruire turbine eoliche offshore e il ritorno delle cannucce di plastica negli uffici governativi, la deriva anti-ambientalista repubblicana potrebbe non fermarsi qui.

 

In copertina: Donald Trump fotografato da Samira Bouaou per The Epoch Times, via Flickr