A Baku è in pieno svolgimento la seconda, difficile, settimana di COP29, caratterizzata da una congiuntura geopolitica incerta, che si somma alla classica complessità dei negoziati ONU. Se la Conferenza fallisse, si rischierebbe un’ulteriore perdita di fiducia nel processo dell’Accordo di Parigi, già parecchio travagliato. Nessun paese, infatti, ha raggiunto le prestazioni necessarie a fronteggiare l’emergenza climatica e contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1,5°C, come emerge dal Climate Change Performance Index 2025, il rapporto annuale sulla performance climatiche, realizzato da Germanwatch, CAN e NewClimate Institute, in collaborazione con Legambiente per l’Italia e pubblicato mercoledì 20 novembre. A questo proposito, l’Italia continua a essere in forte ritardo: se l’anno scorso eravamo scivolati al 44° posto, perdendo 15 posizioni in classifica, ora risaliamo di un solo gradino (43°).

Che cos’è il Climate Change Performance Index

Il report analizza la situazione in 63 paesi, più l’Unione Europea nel suo complesso, che insieme rappresentano oltre il 90% delle emissioni globali. Il parametro di riferimento sono gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030, mentre la misurazione viene fatta attraverso il Climate Change Performance Index (CCPI), che si basa per il 40% sulle emissioni di gas serra, per il 20% sullo sviluppo delle rinnovabili, per un altro 20% sull’efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.

Perfomance climatiche, la classifica Germanwatch

Le prime tre posizioni anche quest’anno restano di fatto vuote, perché nessun paese ha raggiunto i risultati necessari contro il climate change. Le rinnovabili sono in rapida e costante crescita, ma l’uso dei combustibili fossili, soprattutto del gas, viene continuamente prolungato. Al quarto posto, quindi sostanzialmente “prima”, si piazza la Danimarca, seguita dai Paesi Bassi (5°) e dal Regno Unito (6°): quest’ultimo ha fatto significativi passi in avanti (era 20°) grazie alla politica del nuovo governo Starmer, ed è l’unico membro del G20, insieme al’India (10°), a raggiungere la parte alta della classifica.

La maggior parte dei membri del G20, responsabile del 75% delle emissioni globali, si posiziona in basso: le peggiori performance climatiche appartengono a Corea del Sud (63°), Russia (64°) e Arabia Saudita (66°), fanalino di coda insieme a Emirati Arabi Uniti e Iran.

Da notare il crollo della Cina, la maggiore responsabile delle emissioni globali, che perde quattro posizioni (finendo al 55° posto), mentre gli Stati Uniti, secondi emettitori globali, rimangono stabili al 57° posto. Gli occhi del mondo sono puntati su Trump, che in campagna elettorale ha annunciato di voler smantellare la politica di investimenti green avviata da Biden con I’Inflation Reduction Act (IRA).

Climate change, l’Italia nel 2024 non migliora

L’Italia, come anticipato, è sostanzialmente in una fase di stallo. Le motivazioni? Da un lato il rallentamento della riduzione delle emissioni climalteranti (siamo al 38° posto della specifica classifica), dall’altro l’insufficiente politica climatica nazionale (55° posto della specifica classifica).

In particolare, il PIENC (Piano nazionale integrato energia e clima) viene ritenuto poco ambizioso negli obiettivi generali di riduzione delle emissioni e nell’adozione di “false soluzioni”, come il nucleare e la CCS, ovvero la cattura e stoccaggio della CO₂: il piano consente una riduzione complessiva delle emissioni entro il 2030 di appena il 44,3% rispetto al 1990, dopo il già inadeguato 51% previsto dal PNRR.

Neutralità climatica in Italia entro il 2040?

“Mentre la crisi climatica accelera il passo, con eventi meteo estremi sempre più frequenti e impattanti, l’Italia continua ad avere una visione miope, che non riduce le bollette pagate da famiglie e imprese e crea nuove dipendenze energetiche da paesi esteri sempre più instabili politicamente”, commenta Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. “Per voltare pagina, serve un deciso cambio di passo, anche nel settore della mobilità e dell’edilizia.”

L’Italia può colmare l’attuale ritardo grazie al contributo dell’efficienza energetica, di rinnovabili, reti e accumuli, e dell’innovazione tecnologica. “Su questo bisogna lavorare in prima battuta, abbandonando la strada delle fonti fossili e del nucleare e semplificando e velocizzando gli iter autorizzativi dei progetti di impianti e infrastrutture che vanno nella direzione della lotta alla crisi climatica e dell’indipendenza energetica”.

Secondo il Paris Compatible Scenario, elaborato da Climate Analytics, l’Italia può ridurre le sue emissioni climalteranti di almeno il 65%, centrando l’obiettivo climatico 2030, grazie al 63% di rinnovabili nel mix energetico e al 91% nel mix elettrico: si arriverebbe così nel 2035 al 100% di rinnovabili nel settore elettrico, confermando il phase out del carbone entro il 2025 e prevedendo il phase out del gas fossile entro il 2035 stesso,  fino a raggiungere la neutralità climatica già nel 2040.

L’Unione Europea secondo il Climate Change Performance Index

L’Unione Europea rimane stabile al centro della classifica, in 17ª posizione, con 16 paesi che si collocano nella parte medio-alta: Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, Lussemburgo, Estonia, Portogallo, Germania (16°, in calo di due posizioni), Lituania, Spagna, Grecia, Austria, Francia, Irlanda, Slovenia, Romania e Malta. Soprattutto dopo l’elezione di Trump, è ancora più importante per l’UE mettere in campo una forte leadership globale e fare da apripista, dotandosi di un’adeguata politica climatica in grado di ridurre le emissioni climalteranti di almeno il 65% entro il 2030 e dell’82% per il 2035, in vista della neutralità climatica entro il 2040.

Alla COP29 cruciale il ruolo della finanza climatica

Strategie altrettanto efficaci sono necessarie anche nei paesi in via di sviluppo: cruciale, da questo punto di vista, il ruolo della finanza climatica alla COP29 di Baku. “È indispensabile un accordo in grado di mobilitare almeno 1.000 miliardi di dollari l’anno di aiuti pubblici nei prossimi anni, come richiesto dall’Alleanza dei piccoli Stati insulari (AOSIS)”, commenta Mauro Albrizio, responsabile dell’ufficio europeo di Legambiente. “Non solo per la decarbonizzazione dell’economia e l’adattamento ai cambiamenti climatici, ma anche per la ricostruzione economica e sociale delle comunità povere e vulnerabili, messe in ginocchio dai disastri climatici sempre più frequenti e devastanti. Risorse che possono essere rese disponibili grazie anche alla tassazione delle attività a forte impatto climatico e al phasing out dei sussidi alle fossili, in grado di mobilitare sino a 5.000 miliardi di dollari l’anno.”

 

In copertina: Valencia dopo l’alluvione di ottobre, © European Union, 2024