da Baku - Ogni COP risente dello scenario geopolitico globale: negoziati del G20, accordi bilaterali Cina-USA, spinta politica del Green Deal EU, rilancio dell’alleanza BRICS+, G7, summit delle MDBs. Sta nella presidenza COP saper navigare e includere tutte queste istanze all’interno del negoziato sul clima e cercare una geometria di equilibri tra le parti, spesso orientata a un minimo comun denominatore, inevitabile per ottenere il consenso di paesi come Arabia Saudita, USA, Russia o Colombia.
Ma COP29 è diversa. Questa volta gli Stati Uniti hanno annunciato di voler uscire del tutto non solo dall’Accordo di Parigi ma magari anche dall’UNFCCC. L’Unione Europea arriva debole, senza un voto definitivo sulla propria Commissione. Il Brasile, che punta tutto su COP30, non pare essere troppo preoccupato di un fallimento in Azerbaijan (mentre intanto l’organizzazione del negoziato del prossimo anno nella città brasiliana è nel caos). La Cina, a cui tutti guardano con sempre più speranza che prenda le redini del negoziato, si è timidamente esposta sull’impegno nella finanza climatica, ma senza segnalare una reale svolta, vista l’incertezza del quadro attuale. I piccoli stati insulari e il non-club dei LDC, i paesi meno sviluppati, continuano inutilmente a protestare per l’inazione dei grandi e della necessità di dare loro sostegno per adattamento e mitigazione. L’Argentina di Milei si è ritirata dai negoziati. Per le nazioni africane la priorità è reperire risorse economiche, a ogni costo.
E là, dove la presidenza dovrebbe lavorare per smussare gli attriti, l’azero Mukthar Babayev sembra assolutamente incapace di poter gestire la situazione incandescente che si è creata. Vari negoziatori hanno strabuzzato gli occhi alla domanda sul ruolo della presidenza azera, che si candida a essere la peggiore di sempre dai tempi di COP15.
La seconda settimana di negoziato a COP29, insomma, inizia sotto grande incertezza, dove alla classica complessità dei negoziati ONU sul clima si sommano tutti questi fattori. Per riportare fiducia al negoziato, tutti – incluso Babayev – guardano a Rio, al summit dei G20, da dove dovrebbe giungere un’iniezione di fiducia, con la possibilità che sia inclusa nel testo finale una menzione a un impegno volontario da parte delle nazioni in via di sviluppo, che confermerebbe la volontà di allargamento della base dei contribuenti all’obiettivo finanziario per il 2035 all’interno dell’Accordo di Parigi (l’oramai noto NCQG). Sarà davvero così?
Stallo mitigazione
Sono pochi e insufficienti i nuovi NDC presentati a COP29. Per questo è fondamentale il ruolo del Mitigation Work Programme (MWP), istituito durante la Conferenza delle Parti a Glasgow nel 2021 (COP26), e ulteriormente definito nella COP27 a Sharm El-Sheikh nel 2022, con l'obiettivo di spingere i paesi ad aumentare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra nei rispettivi Contributi determinati a livello nazionale (NDC) e facilitare l'attuazione di azioni concrete di mitigazione per raggiungere tali obiettivi entro il 2030.
Ma sabato 16 novembre sera i governi erano talmente divisi su come implementare l’MWP per avere NDC in linea con la scienza che i copresidenti hanno suggerito di non proseguire i negoziati nella seconda settimana e di rinviarli di sei mesi fino ai colloqui sul clima di metà anno nella città tedesca di Bonn, cancellando tutto il lavoro svolto nella prima settimana. Ma lunedì 18 il presidente della COP29 Mukhtar Babayev ha riaperto tutto, affermando che si sarebbe adoperato per evitare che ciò accadesse, e aggiungendo che "la COP29 non può tacere sulla mitigazione" e che avrebbe "affrontato la questione in ogni direzione" disponibile. Segnali di confusione che non posso che preoccupare gravemente.
Il gruppo degli stati insulari AOSIS ha dichiarato che non lascerà Baku senza un forte risultato in termini di mitigazione. “Il fatto che le discussioni siano in fase di stallo è estremamente preoccupante per il nostro gruppo”, ha dichiarato il negoziatore di Samoa alla plenaria della COP. La Svizzera ha inoltre sottolineato che le decisioni prese a Baku sulla mitigazione serviranno a informare il prossimo ciclo di contributi nazionali determinati (NDC) previsto per l'anno prossimo. "Non è accettabile che proprio nell'organismo destinato a ridurre le emissioni non ci sia un messaggio chiaro per il futuro", ha dichiarato il negoziatore svizzero. Entro mercoledì sera sapremo se ha avuto successo.
Arriva la Cina?
Se la cifra sul nuovo goal di finanza climatica al 2035 (NCQG) oscilla intorno alla cifra dei 1.300 miliardi di dollari, “è chiaro che non potrà essere interamente finanziata dagli aiuti pubblici allo sviluppo e che servirà un grande contributo della finanza privata”, ribadisce l’inviato per il clima italiano, Francesco Corvaro. E con gli USA fuori dai giochi c’è solo un grande segnale che potrebbe portare a un risultato importante il negoziato: un nuovo protagonismo cinese accanto a un’Europa in grado di trovare il suo standing nei negoziati. Una direzione possibile, introdotta dal primo annuncio assoluto di Pechino. È la prima volta che la Cina fornisce una valutazione concreta del proprio contributo ai finanziamenti per il clima nell'ambito della cooperazione del Sud Globale, presentando i suoi 24,5 miliardi di dollari di aiuti di stato per la decarbonizzazione in paesi in via di sviluppo.
L’Europa, dal canto suo, ammette di essere indietro con il reperimento delle risorse e di non avere la forza di qualche anno fa, quando a spingere era l’instancabile Frans Timmermans. Nessun paese si è fatto avanti con idee o pledge particolarmente coraggiosi. I tedeschi attendono le elezioni del prossimo anno, la Francia è presente con una delegazione ridotta, l’Italia che avrebbe avuto l’occasione di rafforzare la leadership nel negoziato ha visto la presidente del Consiglio impiegare i suoi 3 minuti di plenaria di alto livello per ricordare il ruolo del gas e della “fusione nucleare” nella transizione energetica. Discorso che è valso all’Italia il primo premio “Fossile del Giorno” assegnato dalla società civile, dopo vari anni di assenza.
Vedremo di capire a quali scenari potrebbe portare un capitombolo di COP29. Da un lato c’è la possibilità di perdere fiducia sul processo dell’Accordo di Parigi, lasciando spazio a richieste anche frettolose di riforma dell’architettura negoziale, che però rischierebbero di rallentare ulteriormente tutto il processo, oltre che a discreditare a livello popolare l’intero framework ONU sul cambiamento climatico. D’altra parte c’è però la difficoltà oggettiva dovuta alla congiuntura geopolitica di mantenere l’ottimismo sul processo negoziale e portarlo avanti a ogni costo, con un pericoloso accanimento terapeutico. Intanto sono iniziate le prime scommesse sull’orario di chiusura di COP29. C’è chi punta su domenica mattina. Non proprio un segnale di luminoso ottimismo.
Immagine: COP29