Da Baku - In queste ore a Baku prosegue serrato il negoziato sul New Collective Quantified Goal (NCQG), ovvero l’obiettivo finanziario post 2025 che nei prossimi 10-15 anni servirà a indirizzare gli sforzi finanziari globali per uno sviluppo a basse emissioni e a prova di clima. Questo obiettivo, parte dell’Accordo di Parigi, serve per sostenere i paesi più vulnerabili agli effetti nefasti del climate change ma che meno di tutti hanno contribuito al cumulo totale delle emissioni di gas serra. Era già stato fissato un precedente obiettivo di 100 miliardi di dollari l’anno dal 2020 al 2025, raggiunto solo a fine 2022, grazie ai contributi (tardivi) di tanti paesi industrializzati, inclusa l’Italia. Ma Roma ha fatto la sua parte all’interno della COP Clima?
“Il principale strumento di mobilitazione di finanza climatica è il Fondo italiano per il clima creato con la Legge di Bilancio 2022, che ha stanziato 840 milioni di euro fino al 2026 per finanziarlo”, spiega Jacopo Bencini, presidente di Italian Climate Network. “Questi 4,2 miliardi di euro, più un rifinanziamento del 2024 da 200 milioni di euro, sono gestiti dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (MASE), in collaborazione con altre istituzioni italiane e partner internazionali.” Fondi che coprono soprattutto accordi bilaterali tra Italia e paesi prioritari (4 miliardi), facendone dunque uno strumento di geopolitica e sviluppo del paese. 300 milioni servono per il Green Climate Fund disposto dalle Nazioni Unite, 100 per il Fondo Loss & Damage reso operativo lo scorso anno.
Ora però l’Italia dovrà, dal 2026 almeno, aumentare le risorse pubbliche da allocare per rispettare la propria quota dovuta (fair share), attualmente stimata dall'organizzazione DSI al 4,73% del totale del NCQG che potrebbe essere definito entro la fine della settimana. Sulla carta il governo Meloni (e prima quello Draghi) ha fatto benino i conti. Rispetto al goal ONU di 100 miliardi di dollari all’anno, l’Italia ha contribuito per il 4,40%, circa 95 milioni in meno all’anno.
Se si preservasse la proporzione nell’NCQG, dovrebbe quindi versare – per un goal ipotetico di mille miliardi di dollari, come da bozze negoziali – circa 47 miliardi di euro, divisi tra aiuti pubblici allo sviluppo (APS), rifinanziamento dei fondi delle banche multilaterali e Green Climate Fund, climate-debt swap, oltre che strumenti privati (prestiti, bond, partnership). Questi ultimi avranno ovviamente la parte del leone. D’altronde l’Italia ha già problemi di bilancio e difficilmente aprirà i cordoni della borsa.
Un fondo per tutte le stagioni
Intanto però è bene capire come ha funzionato fino a ora la finanza climatica italiana e che ruolo ha avuto il Fondo italiano per il clima, celebrato con orgoglio dal ministro Gilberto Pichetto Fratin. Sebbene l’Italia abbia assunto un ruolo di leadership e numerosi esperti ed esperte competenti vi lavorino all’interno, non tutto torna sul Fondo italiano per il clima.
Intanto perdura l’assommarsi di impegni negli aiuti pubblici allo sviluppo, finanza climatica (che avrebbe dovuto essere addizionale agli APS) definita da legge di bilancio, finanza per la biodiversità all’interno del Global Biodiversity Framework, pledge addizionali (come i 100 milioni di euro per il Fondo Loss & Damage), nuove iniziative per la cooperazione in Africa. Si fanno sempre nuovi annunci ma la torta, al netto dei 200 milioni di euro addizionali del 2024, rimane la stessa. Tante facce per un fondo che è diventato il veicolo principe per la geopolitica del governo Meloni, il Piano Mattei, che da solo si sostanzia con 3 miliardi derivati dal Fondo per il clima stesso.
Non solo. C’è poi il tema della finanza per la biodiversità: a COP16 a Cali a fine ottobre è fallito il negoziato per una strategia di mobilitazione di risorse economiche. In questo contesto l’Italia è chiamata a versare almeno 1,5 miliardi di dollari per l’obiettivo a breve termine di 20 miliardi entro il 2025. Al momento non si trova traccia di contributi specifici sul sito del MASE e il sottosegretario Claudio Barbaro contattato a Cali non ha voluto rilasciare interviste.
In plenaria però lo stesso Barbaro ha dichiarato di voler aumentare le risorse per progetti di conservazione nei Caraibi, allocate attraverso l’AICS, quindi legate al bilancio della cooperazione. Ma il dubbio sorge sul fatto che il Fondo italiano per il clima, che ha il mandato anche sulla biodiversità, possa conteggiare congiuntamente progetti che magari hanno tutela del clima e biodiversità insieme. Sapremo poi a dicembre se l’Italia farà anche pledge finanziari all’interno della Convenzione ONU sulla desertificazione, che si terrà a Riyah dal 2 al 12 dicembre, sotto presidenza saudita.
In generale sulle risorse per la cooperazione ambientale e climatica numerose associazioni, come Italian Climate Network, Legambiente e WWF, hanno lamentato la scarsa trasparenza sul conteggio delle risorse e la loro provenienza all’interno del Fondo. Materia Rinnovabile ha analizzato quanto disponibile attraverso il MASE.
Cosa finanzia il Fondo italiano per il clima?
Secondo un documento di presentazione del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, le risorse sono indirizzate verso aree prioritarie della diplomazia italiana: Africa, Balcani e Medio Oriente (in linea dunque con il Piano Mattei e, in generale, con la programmazione MAECI). Le controparti prioritarie sono quelle sovrane come SACE, che hanno l’obiettivo di promuovere partenariati con le “eccellenze italiane”, in linea con le istruzioni del Comitato di indirizzo del fondo. La prima eccellenza ad aver ricevuto un finanziamento è Eni.
Per l’operatività c’è un Comitato direttivo del Fondo italiano per il clima che sta direttamente sotto Palazzo Chigi, con rappresentanti di MASE, MAECI e AICS. A oggi sono stati approvati dal Comitato 8 progetti per circa 600 milioni di euro. Altri 22 sono in fase di valutazione. La lista è variegata e l’abbiamo ricostruita analizzando le 14 delibere del Comitato direttivo.
Uno dei primi progetti approvati è un finanziamento di 50 milioni di euro al governo del Ruanda per sostenere interventi relativi alla mitigazione e all’adattamento climatico. Seguono 100 milioni alla Banque Ouest Africaine de Developpement per interventi green nell’ambito dell’Unione economica e monetaria dell’Africa Occidentale. 50 milioni alla banca di sviluppo Turkiye Sinai Kalkinma Bankasi A.S. per investimenti green e sostenibili di imprese private locali a seguito del sisma del febbraio 2023 in Turchia meridionale. E 100 milioni di euro per la partecipazione a uno special fund di nuova costituzione promosso dall’African Development Bank con l’obiettivo di promuovere finanziamenti nel settore pubblico per progettualità infrastrutturali con una componente di mitigazione e/o adattamento climatico.
L’Angola (tra i primi dieci fornitori di petrolio dell’Italia) ha ricevuto finanziamenti per 10,65 milioni di euro a favore del Ministero delle finanze per il piano nazionale di elettrificazione rurale e di sviluppo delle energie rinnovabili. Altri 25 milioni di euro (ma il documento del 22 marzo riporta erroneamente in dollari la cifra) saranno versati nel fondo di debito Africa Go Green Fund for Renewable Energy and Energy Efficiency S.C.S. (AGGF), a supporto di iniziative di efficienza energetica ed energia rinnovabile nel continente africano. Uno degli ultimi approvati, il 17 novembre a Baku, è il “finanziamento policy-based” del valore di 150 milioni di euro a favore del governo del Kenya. Il finanziamento sovrano ha come obiettivo primario la mitigazione climatica e potenziali co-benefici di adattamento alla vulnerabilità ai rischi climatici del Paese.
Il progetto più criticato invece è l’erogazione di 75 milioni di dollari (o euro, le fonti sono in conflitto) per Eni Kenya BV o altra società controllata direttamente o indirettamente da ENI Spa − che resta comunque garante per l’intero importo del finanziamento − per la produzione di bio-carburanti. Secondo Angelo Bonelli, parlamentare di AVS, “ci troviamo di fronte a un piano voluto dal governo Meloni che utilizza le risorse del Fondo per il clima che dovrebbero essere impiegate per lo sviluppo sostenibile delle realtà più povere dell’Africa e sono invece nella disponibilità di multinazionali energetiche come Eni per la produzione di biocarburanti: processo che sta causando l’impoverimento tra gli agricoltori locali”. E rincara: “Su questa questione andremo fino in fondo, tutti devono sapere ciò che sta facendo il governo Meloni in Africa, per questo sollecito l’apertura di un’inchiesta da parte delle Nazioni Unite sullo sfruttamento degli agricoltori africani con il piano del governo Meloni”.
Difficile dire quanti soldi sono stati effettivamente erogati e come stanno procedendo questi singoli progetti. Da luglio si sono fermate le deliberazioni del Comitato direttivo per via del “DL infrastrutture e investimenti strategici” che permette di destinare parte delle risorse del Fondo per il clima alle finalità e agli obiettivi del Piano Mattei. Da luglio tutti quegli interventi presentati al Fondo per il clima che siano in Africa in uno dei settori sopra menzionati saranno sottoposti alla delibera del Comitato tecnico anziché al Comitato direttivo, creando una struttura direttamente controllata dal Consiglio dei ministri.
A livello di governance, tuttavia, questo passaggio da un comitato all’altro non è stato ancora definito e di fatto è da luglio che non viene deliberata più nessuna operazione (sebbene si continui a lavorare su varie proposte progettuali idonee sia per il Fondo per il clima che per il Piano Mattei, rivela una fonte).
Il nuovo obiettivo globale della finanza climatica
“Rendere molto più trasparente la finanza climatica e per la biodiversità deve diventare una priorità per il MASE, in particolare di fronte al rinnovato impegno finanziario che viene richiesto all’Italia", continua Bencini. Tra meno di due anni l’Italia dovrà iniziare a programmare come allocare le risorse all’interno del nuovo NCQG. La cifra ovviamente dipenderà dall’obiettivo finanziario (attualmente nei negoziati oscilla tra mille e duemila miliardi di dollari), dalla base dei donatori (se solo paesi sviluppati o anche contributi volontari da economie emergenti, come Cina, Brasile, Emirati, Arabia Saudita) e la strategia del paese.
"L'Italia potrebbe fare molto di più se mettesse a sistema tutti i capitali pubblici e privati che spende per il clima. Anche se si sta procedendo meglio di quanto si comunichi", spiega Luca Bergamaschi, vicepresidente del think tank ECCO. "Dove reperire nuovi fondi? Il passaggio più importante a livello strutturale è raggiungere, al più tardi al 2030, lo 0,7 di APS di cui il 50% per clima, come stabilito dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Se si raggiungesse questa cifra – parliamo di circa 7 miliardi all'anno per il clima – ciò sarebbe per lo sviluppo e per la messa in sicurezza di economie, paesi, comunità locali di fronte agli impatti del clima che causano molta instabilità, anche migrazioni e nuovi conflitti." Attenzione anche al rifinanziamento dei fondi nelle banche multilaterali di sviluppo. "Ancora meglio: incrementarlo di almeno il 25%, che riflette l'incremento dell'inflazione e consolida la visione dell’Italia sull’Africa".
Secondo un'analisi ottenuta in anteprima da Italian Climate Network "considerando le responsabilità storiche e l’attuale capacità contributiva del Paese, l’Italia dovrebbe riuscire a mobilitare tra i 14,5 ed i 22,6 miliardi di dollari all’anno in finanza per il clima verso i Paesi del Sud del mondo, quasi venti volte oltre gli attuali impegni". Il calcolo è stato fatto considerando sia le responsabilità storiche dei Paesi in termini di CO2 emessa dall’era preindustriale al 2023 (esclusi gli assorbimenti naturali) che un dovuto aggiustamento per reddito nazionale lordo (Gross National Income – GNI) pro-capite sempre a dati 2023. In questo modo, la cifra risultante dal prodotto tra l’obiettivo globale e le responsabilità emissive storiche viene “aggiustata” per tenere in considerazione la capacità di contribuzione stimata del Paese.
Sostegno all’IDA, ma nessun impegno sui sussidi fossili
La notizia che ha colto di sorpresa a COP29 è stata l’annuncio sull'IDA arrivato da Rio de Janeiro, durante il Vertice G20, dalla presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, insieme al ministro dell'economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, durante incontro bilaterale con il presidente del Gruppo banca mondiale, Ajay Banga.
L'incontro è stato l'occasione per fare il punto sullo stato di avanzamento della collaborazione rafforzata tra l'Italia e il Gruppo banca mondiale, avviata con la dichiarazione d'intenti adottata a margine del vertice G7 Puglia, il cui obiettivo è creare iniziative di sviluppo congiunte nei paesi africani nei settori chiave del Piano Mattei per l'Africa, tra cui energia, infrastrutture, acqua e istruzione e formazione.
Nel corso del dibattito, la presidente Meloni ha annunciato che l'Italia intende aumentare il proprio contributo alla ricostituzione triennale del fondo dell’International Development Association (IDA), per consentire a questo organismo, che destina il 75% delle proprie risorse all'Africa, di potenziare il sostegno ai progetti realizzati nell'ambito del Piano Mattei. Un segnale di possibile ampliamento prospettico, a patto di allocare nuove risorse e non pescare di nuovo dal Fondo italiano per il clima.
Niente di nuovo invece sui sussidi fossili. Il phase-out dei sussidi alle fonti fossili, su cui l’Italia si è impegnata fin dal G20 di Pittsburgh del 2009, peggiora invece di migliorare. Secondo uno studio di One Campaign dove si comparava la spesa dei paesi G7 per finanza per il clima e i sussidi alle fonti fossili, l’Italia è in cima alla classifica, perché spenderebbe 36 volte quanto spende in finanza per il clima, meno del Giappone ma più del Regno Unito. Solo per l’estero l’Italia ha erogato oltre 6,5 miliardi tramite SACE e CDP, a cui da tempo viene chiesto di non erogare più risorse per investimenti in oil & gas (posizione che Eni e altre energy company osteggiano fortemente).
Secondo Legambiente, nel 2023 l'Italia ha speso 78,7 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi (SAD) destinati ad attività, opere e progetti connessi direttamente o indirettamente ai combustibili fossili. Ben 18 miliardi sono andati per sussidi alle caldaie a gas. Si tratta di una somma pari al 3,8% del PIL nazionale, per una spesa che negli ultimi 13 anni ci è costata 383,4 miliardi di euro. "Un punto fondamentale", continua Bencini. "Da qua si possono trovare benissimo una parte delle risorse addizionali per il prossimo NCGQ, oltre che per la decarbonizzazione del nostro paese.”
In copertina: Giorgia Meloni a COP29, Palazzo Chigi