Tra Zambia e Zimbabwe un’immensa distesa di acqua brilla sotto il sole africano: è il lago Kariba, che con una capacità di oltre 180 miliardi di metri cubi d’acqua si aggiudica il titolo del più grande lago artificiale del mondo. Costruito tra il 1955 e il 1959 lungo il fiume Zambesi, il Kariba è da decenni il pilastro energetico di due nazioni: città, industrie e comunità dipendono dalla sua diga per illuminare le case, mantenere attive le fabbriche e pompare acqua per l’agricoltura.
Negli ultimi tempi, però, la siccità, alimentata dal fenomeno climatico di El Niño, sta impattando fortemente il bacino, con gravi conseguenze. I livelli dell'acqua nella centrale di Kariba South sono così bassi che la produzione di elettricità è diminuita di oltre l'80% negli ultimi novanta giorni, con la centrale che genera solo 185 MW al giorno (meno di un quinto della sua capacità). E non si tratta di una novità: interruzioni di corrente per diverse ore al giorno da mesi paralizzano le economie locali, mentre i campi, assetati, non riescono più a produrre raccolti sufficienti. Con il futuro energetico dell’Africa meridionale intrecciato a quello delle sue riserve idriche, il Lago Kariba si fa emblema di una situazione di fragilità e sfide ambientali di più larga scala.
Le grandi dighe sono generalmente associate all’idea di una maggiore resilienza climatica e di garanzia di energia a basse emissioni, e nei contesti aridi e semi-aridi la costruzione dei bacini assume anche il ruolo di immagazzinamento della risorsa idrica. Per questo motivo, il continente africano, per decenni, ha continuato a ospitare nuove dighe. Tuttavia, uno studio pubblicato a gennaio sulla rivista scientifica Earth Science Reviews evidenzia gli impatti ambientali e socioeconomici di queste infrastrutture. Per valutarli, Amaury Frankl e Sofie Annys, autori della ricerca, sono partiti da tre database esistenti, il Global Reservoir and Dam (contenente 760 dighe), il Global Power Plant database (163 dighe idroelettriche) e il GeoDAR (1.565 dighe), che hanno poi confrontato con le immagini satellitari, arrivando a creare una mappa dettagliata di 1.047 dighe sparse nel continente.
Problemi legati al passato
L’analisi mostra come molte di queste infrastrutture rispecchino sfide ambientali e socioeconomiche del passato: la costruzione di grandi dighe (quelle che sequestrano più di 3 milioni di metri cubi di acqua) in Africa ha raggiunto il suo picco negli anni Ottanta, per poi calare drasticamente. Circa la metà delle dighe è destinata all’irrigazione (solo il 16% alla produzione di energia idroelettrica) e la maggior parte dei bacini si trova in aree con clima semi-arido o mediterraneo, caratterizzate da regimi di precipitazione altamente variabili.
Le oltre 1.000 grandi dighe africane immagazzinano circa il 29% della portata media annua del continente, alterandone in modo sostanziale i flussi idrici. Se da un lato garantiscono acqua in stagioni secche, dall’altro compromettono la ricarica delle falde acquifere e alterano la sedimentazione: un fenomeno che ha ridotto la fertilità delle pianure alluvionali nei bacini del Niger, del Nilo e del Volta, penalizzando le coltivazioni e aumentando la dipendenza da tecniche di irrigazione costose.
La ritenzione dei sedimenti nei bacini artificiali inoltre porta all’erosione del letto dei fiumi e delle coste, riducendo l’apporto di sabbia. Il delta del Nilo è un caso emblematico: la diga di Aswan ha drasticamente ridotto i sedimenti in arrivo, aumentando la vulnerabilità all’innalzamento del mare.
Inoltre, le alterazioni idrologiche causate dalle dighe hanno un impatto diretto sulle comunità locali. L’agricoltura di sussistenza, che in molte aree dipende dalle piene stagionali per fertilizzare naturalmente i campi, è messa a rischio dalla regolazione dei flussi fluviali, e i sistemi ittici a valle soffrono per la riduzione dei nutrienti, compromettendo l'economia locale basata sulla pesca. Questa dinamica si verifica, ad esempio, nel bacino del lago Turkana, in Kenya, dove la costruzione della diga Gibe III ha alterato in modo irreversibile il ciclo delle inondazioni naturali, determinando un calo della biodiversità e una riduzione delle popolazioni ittiche, che ha aggravato la crisi economica per le comunità locali.
Il possibile futuro delle grandi dighe africane
D'altro canto, le dighe rappresentano una fonte cruciale di energia rinnovabile per il continente, per la sua crescente domanda di elettricità e il grande potenziale idroelettrico. Tuttavia, la sostenibilità a lungo termine di questi impianti è (paradossalmente) minacciata dai cambiamenti climatici: le previsioni indicano che il 46% delle aree di raccolta delle dighe africane potrebbe subire una riduzione delle precipitazioni entro il 2050, mettendo a rischio la capacità produttiva di molte centrali idroelettriche. A ciò si aggiunge il problema dell’evaporazione dai bacini, particolarmente elevata nelle regioni aride, che determina perdite d’acqua sostanziali, come i 14 miliardi di metri cubi all’anno che evaporano dal lago Nasser, creato dalla diga di Aswan.
Come evidenzia lo studio, per mitigare gli impatti delle dighe e massimizzarne l’efficacia, è necessario adottare strategie di gestione integrata. Il rilascio controllato dell’acqua potrebbe preservare i flussi naturali e proteggere gli ecosistemi fluviali. Il monitoraggio dei sedimenti aiuterebbe a ridurre la perdita di suolo nelle aree a valle. La diversificazione delle fonti energetiche diminuirebbe la dipendenza dall’idroelettrico, e il coinvolgimento delle comunità locali migliorerebbe la gestione condivisa delle risorse idriche. Inoltre, è fondamentale rafforzare la cooperazione transfrontaliera: molti bacini fluviali attraversano più paesi, e la mancanza di accordi efficaci sulla gestione dell’acqua ha spesso generato tensioni diplomatiche.
In copertina: la cascata della diga di Swadini vicino al fiume Blyde con i monti Drakensberg sullo sfondo, in Sudafrica, immagine Envato