La COP28 dei petrolieri, l’ultima COP per salvare l’obiettivo 1,5° C, la COP dell’adattamento, la COP28 del fallimento e della speranza. Sono tante le interpretazioni, quasi divinatorie, che si vogliono dare alla ventottesima conferenza delle parti (COP) riunita dall’UNFCCC, il framework ONU sul cambiamento climatico. Interpretazioni tutte potenzialmente corrette, ma nessuna veramente rivelatrice di come sarà questo negoziato, perché il risultato è sempre una sorpresa.

Sono attesi 70.000 partecipanti – una cifra record – tra negoziatori, delegati, stampa, attivisti, imprese, lobbisti e comparse varie all’interno dell’Expo City di Dubai, e forse mai come quest’anno l’attenzione sul negoziato sembra così forte. Vuoi il ruolo della presidenza data in mano a un petroliere, vuoi la limitata libertà di dissenso, la presenza (mancata per malattia) del Pontefice, o il fatto che sempre più cittadine e cittadini esprimono preoccupazione dopo un 2023 record di temperature da quando esistono le colonnine di mercurio.

Nella multicolore schiera di commentatori che si degnano di parlare di diplomazia climatica solo per sfruttarne i riflettori mediatici c’è già chi ne ha decretato il fallimento, l’inutilità, l’inefficacia, senza nemmeno conoscere cosa sono davvero i negoziati. Rumore di fondo che però è meglio eliminare.

Meglio quindi mettere in ordine il tutto e provare a capire cosa davvero c’è sul piatto di COP28, cosa possiamo attenderci e come funzionerà questo ennesimo negoziato ONU, che Materia Rinnovabile seguirà live dal 30 novembre al 12 Dicembre (anche se poi si sa che si può andare sempre ben oltre i tempi supplementari).

Mitigazione, ovvero come ridurre le emissioni

Secondo l’Accordo di Parigi, tutti i Paesi della Terra si devono impegnare a ridurre le emissioni di gas climalteranti (CO2, metano, f-gas, eccetera) per limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C rispetto alle temperature della fine del 1800, e idealmente non più di 1,5°C. Gli impegni di ogni nazione firmataria sono definiti da un documento noto come NDC, che è una dichiarazione di intenti da perseguire, che ogni 5 anni va rivista al rialzo, aumentandone cioè l’ambizione.

La COP richiede ai paesi di rendicontare in maniera trasparente le proprie emissioni e le proprie azioni, fornisce strumenti tecnici e finanziari per i Paesi meno sviluppati, ma non obbliga nessuno a implementare i propri NDC. Spetta alla società, alle imprese e alla politica agire per ridurre le proprie emissioni. L’Accordo di Parigi e la COP offrono un solo un quadro di azione, condiviso tra tutti.

Il 2023 è importante perché tutti i Paesi forniranno un resoconto dei progressi fatti attraverso un meccanismo quinquennale di revisione, il Global Stocktake, analizzato e approvato dall’assemblea. Come da aspettative i progressi di riduzione delle emissioni sono stati minimi, tra guerre e ignavia di molti Paesi, e serve accelerare.

Sul piatto dei negoziati, dunque, ci devono essere degli obiettivi addizionali che facciano pressione sui Paesi che meno hanno fatto per la decarbonizzazione. Uno di questi è l’eliminazione definitiva a medio termine dell’uso delle fonti fossili, che però è osteggiato da quegli Stati che storicamente hanno emesso meno di USA, Europa e altri Paesi del Nord globale. 

Con una bassa probabilità, a Dubai si potrebbe arrivare a un impegno di phase out del carbone entro il 2050 e un obiettivo di riduzione graduale (phase down) di tutte le emissioni di petrolio e gas (con data da definire), con la dicitura aggiuntiva di “unabated”, vale a dire che la dismissione completa sarebbe solo per i combustibili fossili impiegati senza tecnologie per riduzione o cattura delle emissioni (Carbon Capture and Storage – CCS, o Carbon Capture and Usage, CCU), un obiettivo condiviso da Europa e USA.

Se venisse approvato un obiettivo del genere ci sarebbe da attendersi un boom di investimenti in tutte le tecnologie di riduzione e cattura della CO, incluse anche le tecnologie per flaring e emissioni fuggitive di CH₄, cioè del metano ‒ di cui parleremo tra un attimo. Se ciò accadesse – dato che impatterebbe comunque sul mercato delle fossili – sarebbe comunque un progresso importante. Una posizione del genere non è ben vista dall’India, che usa grandi quantità di carbone e non ha fatto investimenti nei CCS, dalla Russia e da altri Paesi BRICS, mentre la Cina non si è ancora del tutto sbilanciata su quale posizione adotterà.

Critico sarà il ruolo della presidenza emiratina sotto l’egida di Sultan al Jabar, che per il momento è stato travolto dall’imbarazzante notizia (rispedita però al mittente da Al Jabar) secondo cui avrebbe usato il ruolo di presidente dei negoziati per siglare nuovi contratti petroliferi per l’ADNOC, la compagnia oil&gas di Stato. Se il buongiorno si vede dal mattino…

Sotto una pressione mediatica globale enorme, però, potrebbe essere spinto a un rinnovato impegno, dopo che mezza società civile ha chiesto di rimpiazzarlo. Ma non sarà questa COP lo showdown finale con Big Oil, potenzialmente rimandato al 2025, si spera con un quadro geopolitico migliore (anche se l’aria che tira in Europa e USA è delle peggiori per il clima).

Avanti con rinnovabili e metano

Il recente annuncio congiunto di USA e Cina per triplicare le rinnovabili al 2030 e raddoppiare l’efficientamento energetico (e rispettivi investimenti) invece potrebbe essere visto da tutti come un obiettivo facile da convertire in risultato, dato che è considerato una leva di sviluppo economico dalle due superpotenze, e su cui l’Europa è allineata. Sono pochi gli ostacoli che si dovrebbero frapporre all’inserimento di questa decisione nel documento finale. Un risultato plausibile e facilmente raggiungibile.

Da vedere, invece, se Russia e altri petrostati si opporranno a un obiettivo di riduzione quantificato delle emissioni fuggitive di metano e del flaring nel settore energetico, fondamentale per ridurre un gas serra fino a 80 volte più potente della CO2 e che potrebbe avere impatti significativi per rallentare il climate change nel breve termine.

Da anni gli USA, grandi produttori di gas non-convenzionale (shale gas), fanno pressione per questo obiettivo (che ne darebbe un vantaggio competitivo di mercato, ovviamente). Ora sarebbe arrivata luce verde anche dalla Cina, oltre che da tutta la coalizione dei 150 Paesi del Global Methane Pledge, un quadro volontario che supporta le nazioni ad agire per ridurre collettivamente le emissioni di metano del 30%, rispetto ai livelli del 2020, entro il 2030.

Il quadro include anche gli EAU che avrebbero tutto l’interesse a lavarsi l’anima con un risultato. Non certo secondario. È tempo di trasformare gli impegni volontari in obblighi: “Se rimangono solo promesse, si schianteranno con un tonfo”, ha detto a Reuters Rachel Kyte, ex inviata per il clima della Banca Mondiale. "Gli Emirati Arabi Uniti devono impegnare aziende e Paesi a sedersi e negoziare un accordo vincolante per eliminare il metano."

Adaptation Goal?

L’Obiettivo Globale sull’Adattamento (GGA) è un impegno collettivo ai sensi dell’articolo 7.1 dell’Accordo di Parigi, volto a “migliorare la capacità di adattamento [del mondo], rafforzare la resilienza e ridurre la vulnerabilità ai cambiamenti climatici”. Proposto dal Gruppo africano di negoziatori nel 2013 e istituito nel 2015, il GGA è destinato a fungere da quadro unificante in grado di guidare l’azione politica e i finanziamenti per l’adattamento sulla stessa scala della mitigazione.

Però al momento non ha stabilito definitivamente obiettivi e linee guida specifici e misurabili per l’azione di adattamento globale, né creato meccanismi per potenziare i finanziamenti per l’adattamento a sostegno dei Paesi in via di sviluppo. Uno sforzo non semplice, dato che spesso le strategie sono iper-locali, differenti da Paese a Paese, e con complesse valutazioni per il finanziamento. Alla COP28, i negoziatori lavoreranno per finalizzare e attuare il GGA.

Dopo anni di lenti progressi, i Paesi hanno concordato alla COP26 di Glasgow di realizzare un’iniziativa di durata biennale per definire ulteriormente il GGA, rinominata Programma di lavoro Glasgow-Sharm el-Sheikh (GlaSS), che si è tradotta in otto seminari tecnici nel corso del 2022 e del 2023 per illustrare punti di vista e obiettivi diversi tra partiti e parti interessate. Il programma GlaSS dovrebbe concludersi alla COP28 con un rapporto annuale. Che però sarà approvato – forse – in extremis a fine negoziato, viste le numerose parti ancora aperte. Se succedesse sarebbe un grande passo in avanti.

Loss&Damage & Finanza Climatica

Si arriverà ai famosi 100 miliardi di dollari l’anno (obiettivo che doveva essere raggiunto nel 2020) per la finanza climatica? Vedremo gli annunci che arriveranno durante il summit, vista la nutrita presenza di capi di Stato (grandi assenti Joe Biden e Xi Jinping), ma oramai la quota dovrebbe essere raggiunta, anzi è arrivato il momento di annunciare un nuovo target economico per il 2030 e oltre, che dovrebbe essere allineato ai nuovi NDCs nel 2025.

Quanto possono mettere sul tavolo le nazioni industrializzate, magari con i proventi dei carbon market o una carbon tax globale, unici meccanismi che potrebbero aumentare gli impegni economici? È giunto il tempo di includere anche la Cina tra i Paesi industrializzati? Temi interessantissimi ma che dubito verranno trattati alla COP, sebbene oggi abbia quasi più visibilità e rilievo dell’Assemblea Generale ONU.

I media hanno tutta l’attenzione per un piatto minore ma non irrilevante, ovvero il meccanismo più atteso dai piccoli Stati insulari e dai Paesi più vulnerabili, il Loss&Damage Fund. All’inizio di novembre i negoziatori hanno trovato una possibile convergenza per istituire un fondo per perdite e danni per le nazioni vulnerabili per affrontare i disastri legati al cambiamento climatico. Il fondo dovrebbe essere ospitato ad interim dalla Banca Mondiale, per i primi quattro anni, nonostante le obiezioni di diversi Paesi in via di sviluppo e degli Stati Uniti.

Le nazioni meno sviluppate hanno richiesto una forma più trasparente che definisca in modo chiaro come l’onere di erogare risorse per il fondo ricadano sulle nazioni più ricche che storicamente hanno emesso più di tutte (leggi: USA, EU, Giappone). Non sono ancora risolte le preoccupazioni sul fatto che la Banca Mondiale non abbia l'indipendenza necessaria per amministrare il fondo, nonostante le rassicurazioni di tanti leader sul fatto che sia la soluzione migliore per erogare rapidamente eventuali risorse.

Attendiamoci una serie di impegni economici, a partire dagli stessi Emirati Arabi Uniti, per popolare il fondo Loss&Damage, durante la parata dei capi di Stato il 2 e 3 Novembre. Tra l’altro anche l’Italia – ha fatto sapere l’inviato per il clima Francesco Corvaro – dovrebbe annunciare il rinnovo del Pledge al Green Climate Fund da 334 milioni di euro, che andrà ad aggiungersi alla dotazione di 840 milioni di euro l’anno (fino al 2026) del Fondo Italiano clima per mitigazione e adattamento.

Altro tema importante sulla finanza: sono state concordate le raccomandazioni finali per un mercato globale del carbonio (su cui è mancato l’accordo in Egitto), aprendo la strada all’approvazione durante COP28. Secondo l’accordo di Parigi, i Governi possono creare crediti di carbonio scambiabili su un mercato supervisionato dalle Nazioni Unite. L’accordo include linee guida per le aziende e le nazioni per ricevere crediti di carbonio verificati, nonché quali progetti possono compensare i crediti di carbonio. Un tema caldo, specie per il mondo non-governativo che sostiene che i carbon credit possano aggirare l’attuazione di una reale politica di mitigazione, critica che, però, potrebbe essere ovviata con un meccanismo di verifica e monitoraggio davvero efficace.

 

Immagine: UNClimateChange via Flick

*pezzo modificato il 29 novembre alle 11.22