Nella foschia di questi fumi di guerra, manca poco alla COP28 di Dubai e dobbiamo capire bene cosa portare in valigia. Quali lenti, quali letture. Navigare, capire questa COP non sarà semplice e potremmo essere facilmente tratti in inganno lungo il cammino: dal contesto internazionale, dai pregiudizi sul Paese ospitante, dalle COP precedenti. Proviamo a proiettare il pensiero in avanti, con qualche elemento.
Nell’ordine e partendo dal contesto internazionale, verrebbe naturale immaginare un’ulteriore COP di transizione, come pensavamo sarebbe stata COP27 lo scorso anno a Sharm el-Sheikh. Proprio la COP egiziana ci ha invece trasportati, forse troppo velocemente per chi non segue da vicino certe dinamiche, in un nuovo mondo caratterizzato, possiamo ormai dirlo senza retorica, dal ritorno sulla scena politica del Sud del mondo.
Lo abbiamo capito già dal finale rocambolesco di COP26, due anni fa: senza soldi sul piatto da parte degli inquinatori storici, i Paesi del Sud – che poi sono la maggioranza della popolazione mondiale – non avrebbero accettato ulteriori compromessi, promesse o imposizioni da parte dei “ricchi”.
La pandemia e la conseguente crisi economica e sociale hanno sicuramente avuto un effetto sull’atteggiamento di tanti Governi, ormai stanchi delle grandi manovre delle ex potenze del Nord, nel rifiutare di dedicare proprie e nuove risorse economiche a un problema non causato da loro – quello dei cambiamenti climatici ‒ distogliendole dalle nuove urgenze economiche, sociali e sanitarie. Questo scatto politico non sarebbe stato certo possibile senza un allineamento tattico tra Cina, India e altri grandi Paesi in tutti i contesti ONU, che potremmo semplificare con la formula “superBRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) + resto del Sud”.
La successiva vittoria elettorale di Lula in Brasile e l’apparente incrollabilità del regime russo, nonostante sanzioni e logoramento militare, hanno contribuito a rafforzare questo nuovo gruppo tattico, tanto da arrivare, proprio nel 2023, all’allargamento dei BRICS con l’ingresso di sei nuovi Paesi (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), addirittura con la prospettiva concreta del lancio di una nuova moneta dei BRICS potenzialmente capace di de-dollarizzare i mercati mondiali.
Questo mentre Stati Uniti e Unione Europea, per motivi diversi, apparivano politicamente deboli, al limite del sembrare fuori dal tempo, come il discorso del Presidente USA Biden a Sharm el-Sheikh, che dal palco parlava dell’opportunità di aiutare i Paesi più fragili su perdite e danni tramite schemi assicurativi, mentre nelle sale del centro congressi venivano ultimate le bozze negoziali per superare quell’idea e portare a casa un fondo multilaterale aperto per erogazioni dirette – l’esatto contrario ‒ come poi accaduto. Quasi straniante, per chi era lì come noi.
COP28 arriva, insomma, in uno scenario internazionale tutt’altro che incerto e tendente chiaramente, in questo momento, verso una certa de-occidentalizzazione di alcune dinamiche multilaterali.
Tenuto conto che per molti Paesi del Sud del mondo, piccoli inquinatori, le risorse economiche per adattamento e perdite e danni contano più dei piani di decarbonizzazione nel breve periodo, non dobbiamo stupirci se il Presidente di COP28, Al Jaber, all’Africa Climate Week ha parlato proprio di raddoppio dei fondi in adattamento entro il 2025: finanza climatica (“finance, finance, finance”, diceva a Nairobi) e soldi – subito – per il nuovo fondo perdite e danni.
Nessuna menzione di una prossima revisione dei piani nazionali sulle emissioni, gli NDC, cuore dell’Accordo di Parigi sul clima. Non bene, ma, ahinoi, neanche una sorpresa. Su questo ultimo aspetto, infatti, influisce moltissimo la ristrutturazione energetica globale seguita all’invasione russa dell’Ucraina e le successive sortite in cerca di gas africano di alcuni grandi consumatori come l’Italia.
Immagine: Dubai, Olga Ozik, Pixabay
Le controversie legate alla COP28 a Dubai
Molti attivisti si sono poi chiesti cosa potremmo aspettarci da una COP ospitata dagli Emirati Arabi Uniti, tra i principali venditori di petrolio a livello globale. Gli stessi attivisti si sono trovati ancora più arresi quando è uscita la notizia che a presiedere la COP28 sarebbe stato proprio Sultan Al Jaber, Ministro dell’industria degli Emirati e CEO della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), principale compagnia petrolifera del Paese e dodicesima al mondo.
È necessario però tracciare un quadro più completo, ragionando anche in termini geopolitici e di immagine pubblica. Un fatto: ospitare un evento internazionale enorme come una COP sul clima porta attenzione, attese e visibilità sul Paese ospitante. Nessun Governo vorrebbe sfigurare in un contesto simile, su nessuno dei tre piani. Anzi, di solito si presenta una candidatura per rifarsi un’immagine, diremmo in altri contesti. È per questo motivo che, sin dall’annuncio che la COP si sarebbe tenuta negli Emirati, ripetiamo anche ai più critici che qualcosa di buono, anche minimamente, dovrà venirne fuori, proprio perché quel Governo avrà bisogno di fare bella figura, almeno su qualche tema.
Ognuno gioca nel campo che meglio conosce e in questo senso possiamo aspettarci annunci roboanti (e tutto sommato positivi, presi singolarmente) sui temi che gli Emirati maneggiano bene nel settore: i soldi e la tecnologia. Sul primo punto forse non indoviniamo male, visto che Al Jaber ha già annunciato – sempre durante l’African Climate Week, e non è un caso – un corposo contributo emiratino all’obiettivo, ormai vetusto a dire il vero, di mobilitare almeno 100 miliardi di dollari all’anno in finanza climatica, mettendo sul tavolo 4,5 miliardi di dollari in progetti per il clima in terra africana nei prossimi anni.
Immaginiamo trattative aperte con numerosi Paesi, in questi giorni, per arrivare a un Leaders Summit di inizio COP (il classico momento in cui capi di Stato e di Governo compaiono per pochi minuti in COP per annunciare qualcosa) pieno di promesse di questo tipo e, speriamo, anche di finanziamento iniziale del fondo perdite e danni, che rischia seriamente di partire in quinta ma senza benzina, se è permesso il gioco di parole.
Sul fronte tecnologico, non stupirebbe leggere di nuove iniziative multilaterali o di piccoli gruppi di Paesi ambiziosi nei settori delle rinnovabili di ultima generazione, a partire da fotovoltaico ed eolico, magari offshore. La COP26 di due anni fa ci ha insegnato che esistono ormai due velocità nella diplomazia climatica. La prima lenta e farraginosa, quella degli accordi nelle sale, con 196 attori negozianti. La seconda, invece, per gruppetti di Stati, che spingono su un tema. Occhi aperti, quindi, sui lanci di agenzia dei Governi del Golfo Persico, arriveranno sorprese e molti a Dubai sperano, probabilmente, in un effetto imitativo-moltiplicativo.
Our region radiates resilience, growth, and motivation in the face of global challenges. Together, we're forging a path towards a brighter future with enlightened leadership. #DrSultanAlJaber #MENAClimateWeek #UniteActDeliver pic.twitter.com/emrqMnzU2p
— COP28 UAE (@COP28_UAE) October 8, 2023
La questione NDC
Un’ultima attenzione, infine, va dedicata alla storia delle COP precedenti, anche per rivedere meglio la nostra lista delle cose da portare e non dimenticare niente, soprattutto le cose importanti. A Glasgow nel 2021 la COP26 si chiuse con l’impegno, per tutti i Paesi, di rivedere i propri NDC al rialzo per migliorare le prospettive – ormai scarse – di contenere il riscaldamento globale entro +1,5°C alla fine del presente secolo. Gli NDC avrebbero dovuto essere aggiornati entro la COP27 egiziana dell’anno dopo, ma l’invasione russa dell’Ucraina ha dato a molti una via di fuga da nuovi impegni – “il contesto è troppo incerto”.
La stessa Unione Europea, che per anni ha giocato nel ruolo di trend-setter nell’impegno sulle emissioni, a Sharm el-Sheikh ha un po’ goffamente annunciato una non-revisione del proprio NDC con riduzione delle emissioni del -55% al 2030, portandola al -57% per “ricalcolo tecnico”. Meglio di niente ma non entusiasmante, e a Dubai la stessa delegazione europea arriverà in aria di elezioni 2024 (molti i remi in barca, probabilmente) e con un nuovo Commissario al Green Deal, Maroš Šefčovič, appena entrato in carica e già, di fatto, uscente.
Probabilmente la revisione degli NDC, necessaria e centrale per rilanciare l’ambizione climatica, ci rimarrà in valigia verso la COP del 2024 ‒ e questa è la notizia peggiore. Non facciamola sgualcire troppo, ci servirà alla prima occasione utile. Come detto, però, non possiamo abbandonarci all’inerzia, dobbiamo portare con noi, intanto, anche gli obiettivi di finanza climatica da raggiungere, anche a costo di gonfiare la nostra vela globale con il vento dei già-petroldollari (purché non si tratti di solo greenwashing, ma su questo speriamo sia sufficiente l’attenzione del Segretario Generale Guterres) e la prospettiva di corposi investimenti in ricerca e sviluppo, se non addirittura in trasferimenti, sulle energie rinnovabili, unica arma universale contro la produzione di nuove emissioni da nuovi impianti ormai fuori da ogni possibile politica.
Non sottovalutiamo, infine, guerra e pace. Anche quest’anno per due settimane il mondo si siederà a un tavolo – tutti, nessuno escluso ‒ per parlare di come risolvere il più grande dei problemi globali, mentre là fuori quegli stessi Paesi innalzano muri e barricate, testano nuovi missili, invadono, bombardano. Non è banale. Come si sarebbe detto una volta, visto il contesto.
Immagine copertina: Alexadar Pasaric, Pexels