La COP28 che si sta aprendo a Dubai sicuramente contiene degli elementi paradossali, letteralmente assurdi e incredibili in contesti “ragionevoli”. Ormai siamo tanto abituati ad accettare qualunque cosa, che diventa normale persino il fatto che la conferenza delle parti delle Nazioni Unite in cui si discuterà di come fermare il disastro del cambiamento climatico si svolga in uno degli Stati maggiormente produttori di petrolio e gas naturale (il 12° al mondo), e che prevede di qui al 2027 di incrementarne la produzione del 25%.
Nessun problema pure per il fatto che a guidare e coordinare la conferenza ci sarà Sultan al Jaber, che di mestiere fa l’amministratore delegato di Adnoc, l’azienda che estrae dal sottosuolo degli Emirati Arabi Uniti gas e petrolio in grande quantità. Peraltro, Sultan Al Jaber al suo “attivo” ha uno dei più clamorosi (e costosi) fallimenti mai registrati nel campo dell’innovazione e della decarbonizzazione: il megaflop di Masdar City, la meravigliosa “città sostenibile”, ideata nel 2008 con un investimento di 15 miliardi di dollari, praticamente inesistente se non nelle portentose campagne di stampa internazionali.
Inoltre, nei sette “regni” che compongono gli Emirati Arabi Uniti non si vota, non c’è democrazia e se qualcuno scrive o dice qualcosa che non piace alle famiglie regnanti viene sbattuto in prigione senza tanti complimenti.
Ciò che non si sapeva è che rischiano conseguenze anche i giornalisti che andranno a raccontare quello che succede (o quello che verrà loro detto) alla Conferenza. Lo hanno scoperto i colleghi giornalisti di E&E News, una testata specializzata su energia e ambiente del giornale statunitense Politico.com.
La scoperta di un vero e proprio dettagliato elenco di restrizioni e divieti, pubblicata anche sul sito dell’agenzia climatica dell’ONU, UNFCCC, ha prodotto reazioni e polemiche. Dopo qualche giorno la lista dei divieti è stata definita “un errore tecnico” e rimossa.
Resta il fatto che le restrizioni, pubblicate sul sito ONU il 23 ottobre (Media Content Standards) ed emesse dall'Ufficio di Regolamentazione dei Media degli Emirati Arabi Uniti, chiedevano ai giornalisti provenienti da tutto il mondo di “astenersi dal pubblicare qualsiasi cosa possa offendere direttamente o indirettamente il regime dominante dello Stato" o che "possa risultare offensivo per l'unità nazionale e la coesione sociale” degli Emirati.
Da evitare anche articoli “considerati offensivi, con o senza intenzione, verso altri Paesi" e quelli che "potrebbero includere la divulgazione di segreti che potrebbero danneggiare la reputazione” o il patrimonio di singole personalità. Infine, i giornalisti si sarebbero dovuti impegnare persino a non rivelare questi stessi divieti.
Quali conseguenze sarebbero derivate dalla violazione di questi standard non è esplicitato. Fatto sta che praticamente ogni articolo sarebbe potuto ricadere sotto la mannaia. E non a caso, una volta reso noto il problema, le autorità emiratine e l’UNFCCC hanno immediatamente rimosso il documento, dichiarando poi che “il suo contenuto è obsoleto e non rilevante per i media che partecipano a COP28”.
Non è stato chiaramente detto se le restrizioni invece continuino a valere per i giornalisti locali, o quelli stranieri che lavorano stabilmente negli Emirati. Quel che è certo è che notoriamente negli Emirati sono in vigore gravi restrizioni per la libertà di espressione, che vigono leggi penali per la diffamazione, che fioccano gli avvertimenti (seguiti, per evitare l’espulsione dal Paese o la prigione), che prevale l’autocensura, che il governo usa regolarmente tecniche di hacking, che due sono i giornalisti in prigione e che in galera si finisce anche solo per una battuta sui social media.
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