Se l’anno che segna il passaggio al secondo quarto del secolo ha un’aura simbolica un po’ per tutti, per la Cina in particolare il 2025 arriva come un momento cruciale di bilanci e prove del fuoco. La guerra dei dazi con gli USA, i rapporti con la nuova presidenza americana, la prevalenza schiacciante sul mercato delle tecnologie per la transizione energetica, il ruolo nel sempre più teso scacchiere della geopolitica, e, non da ultimo, il peso determinante nell’azione climatica globale fanno sì che tutti gli occhi siano puntati verso le prossime mosse del gigante asiatico. Che intanto, però, se la deve vedere con un’economia in rallentamento e uno scontento crescente dell’opinione pubblica interna.

Nel corso delle prossime Due Sessioni (Liang Hui), l’evento politico più importante della Repubblica Popolare previsto per il 5 marzo, i leader cinesi dovranno riferire sullo stato dell’economia e soprattutto fissare un nuovo target di crescita, considerando l’affanno con cui il Paese (forse) arriverà a toccare quello precedente del 5%.

Inoltre, cade quest’anno il termine dell’iniziativa Made in China 2025, lanciata una decade fa con l’obiettivo di raggiungere l’autosufficienza tecnologica e rendere la Cina un Paese leader nell’industria high-tech mondiale. E sempre quest’anno, secondo previsioni della IEA e di vari osservatori internazionali, e malgrado la cautela degli stessi cinesi nel fare annunci, la Repubblica Popolare potrebbe raggiungere il picco delle emissioni. Ecco dunque, fra i tanti temi da tenere d’occhio nel 2025 della Cina, un riassunto di quelli più caldi.

Made in China 2025: il sogno della leadership tecnologica

Dieci anni fa, nel maggio 2015, il governo cinese lanciava in pompa magna l’iniziativa Made in China 2025 (中国制造2025, Zhōngguó zhìzào 2025), un mega piano di sviluppo per trasformare la Repubblica Popolare da “fabbrica del mondo” (di prodotti low-tech) a leader globale nell’industria 4.0. I settori individuati come strategici comprendevano aerospazio, biotecnologie, biomedicina e farmaceutica, informatica e intelligenza artificiale, ingegneria marittima e ferroviaria, nuovi materiali, automazione industriale e produzione intelligente, macchinari agricoli e, naturalmente, veicoli elettrici.

Sebbene dopo il 2018, con l’inizio della “guerra dei dazi” voluta da Trump, lo slogan dell’iniziativa abbia smesso di comparire nei discorsi e nei documenti ufficiali, il governo cinese ha però continuato a investire massicciamente nei settori high-tech, promuovendo le nuove parole d’ordine “sviluppo di alta qualità” e “nuove forze produttive", e continuando a insistere sulla necessità di una autosufficienza tecnologica.

A dieci anni dal lancio dell’iniziativa, si può obiettivamente dire che i risultati, a eccezione di pochi settori come quello dei semiconduttori, sono stati ottenuti. La Cina è oggi leader indiscussa nei mercati globali delle batterie, dei componenti fotovoltaici, nonché dei materiali critici per produrli. Il suo sistema ferroviario fa ormai impallidire i treni ad alta velocità europei, e l’avveniristico “treno volante” a levitazione magnetica, che raggiungerà i 1.000 km orari, è in fase di test. Per non parlare del comparto EV, che ha raggiunto i 10 milioni di veicoli prodotti in un anno, con il sorpasso storico, annunciato dopo Capodanno, di Tesla da parte di BYD Auto. Si è inoltre cominciato a parlare molto di “economia a bassa quota”, cioè lo sfruttamento dello spazio aereo sotto i 3.000 metri con veicoli elettrici ad atterraggio verticale (eVTOL o “macchine volanti”): un campo che si annuncia come la prossima grande opportunità di mercato. Infine, come ha ricordato Xi Jinping nel suo discorso di inizio anno, una sonda lunare cinese, la Chang'e-6, ha raccolto per la prima volta nella storia dei campioni di roccia dal lato oscuro della Luna.

Involuzione, sfiducia, consumi

I toni trionfali di questa cavalcata tecnologica del Dragone non raccontano però tutta la storia. Nel dopo-pandemia, il rallentamento della crescita economica cinese, unito allo scoppio della bolla immobiliare, ha portato a una crisi dei consumi interni e a un tasso di disoccupazione giovanile preoccupante, che si è attestato poco sotto il 20%.

Sui social media cinesi è così diventato popolare il termine neijuan (内卷), che significa letteralmente “rotolare verso l’interno” e si può tradurre come “involuzione”. La buzzword è partita dal campus di una delle più importanti università del Paese, la Tsinghua University di Pechino. La foto di uno studente che lavorava al computer andando in bicicletta è diventata virale con il titolo di “Re involuto della Tsinghua”: il simbolo degli sforzi disumani e della feroce competizione che spesso sono richiesti ai giovani cinesi per migliorare la propria condizione economica, e che oramai vengono percepiti come vane fatiche, visto che oggi trovare un lavoro in città è quasi impossibile e l’economia non corre più come faceva fino a qualche anno fa.

Manca la fiducia ai giovani (che tra l’altro fanno sempre meno figli), e anche ai loro genitori, che si preoccupano ora molto di più di risparmiare. Come scrive Sim Tze Wei su ThinkChina, “le vendite al dettaglio sono aumentate solo del 3% nel 2024, ben al di sotto della previsione del 5%, e i consumi delle famiglie rappresentano meno del 40% del PIL, notevolmente inferiore al 65% circa registrato in altre economie sviluppate”.

Fra le sfide più importanti che il 2025 presenta a Xi Jinping e al governo cinese, c’è dunque quella di ridare fiducia alla popolazione e di rianimare i consumi interni. Segnali in questa direzione sono già arrivati in occasione del 75° anniversario della Repubblica Popolare, a ottobre (e poi nei mesi successivi), con una serie di misure finanziarie, di linee guida per l’occupazione e alcuni stimoli per i consumi delle famiglie e la ripresa demografica. Vedremo se basteranno e se ne arriveranno altre.

Cina, nuovo eroe del clima?

Nel discorso di inizio anno di Xi Jinping (strategicamente) non se ne fa cenno, ma le politiche climatiche cinesi sono senza dubbio uno dei temi più caldi da tenere d’occhio nel 2025. Con il ritorno di Trump alla presidenza USA, la Cina si ritrova infatti nel ruolo di “potenza globale più responsabile” nell’ambito dell’azione climatica: un ruolo di leader morale che a Xi piace molto, e che ama reclamizzare anche in altri ambiti, come la cooperazione per il Sud Globale e la diplomazia per la pace.

Tuttavia, i leader cinesi preferiscono la cautela quando si parla di target climatici. Rilasciato poco prima della COP29 di Baku, l’Annual Report on Policies and Actions on Climate Change 2024 ribadiva infatti l’obiettivo al ribasso del raggiungimento del picco di emissioni entro il 2030, nonostante tutti gli osservatori internazionali (IEA in testa) lo prevedano già per il 2025.

Potrebbe essere “una scusa per non impegnarsi in obiettivi più ambiziosi”, ci ha detto a novembre Belinda Shape del CREA di Londra, e di certo le priorità del governo cinese riguardano in questo momento più la ripresa economica che il picco delle emissioni. Vero è, però, che in Cina l’economia reale va verso la transizione, e a fine 2024 si contavano ben 1.500 GW di capacità rinnovabile installata, ovvero circa il 50% della capacità di generazione totale del Paese: un record mondiale indiscusso e inarrivabile.

Chi ha paura di Trump?

Non la Cina, verrebbe da rispondere in una battuta. E i China watchers concordano più o meno tutti su questa visione. Come scrive il politologo Yan Xuetong su Foreign Affairs, “i leader cinesi non guardano a Trump con timore”. La sua annunciata politica sui dazi – cavallo di battaglia durante la campagna elettorale – è sicuramente motivo di preoccupazione per l’economia cinese, che già soffre di una sovracapacità in vari settori, a cominciare dagli EV. Ma, scrive ancora Yan, la Cina ha imparato la lezione dal primo mandato di Trump e ora è più preparata a gestirlo. Inoltre, osserva il vice-direttore di Foreign Policy James Palmer, i dazi americani potrebbero paradossalmente servire a Xi Jinping come capro espiatorio e aiutarlo a gestire il malcontento interno per la non facile congiuntura economica.

Dazi a parte, come ci ha detto Simone Pieranni all’indomani delle elezioni americane, “Trump è un imprenditore, e i leader cinesi probabilmente ritengono di avere la possibilità di parlarci in modo più chiaro rispetto a un presidente democratico, che sarebbe più attento a questioni legate ai diritti”. Insomma, non si temono scontri ideologici, né un preoccupante inasprirsi di un clima da Guerra Fredda. “La competizione fra Stati Uniti e Cina – scrive ancora Yan – non riguarda l'ideologia, ma la tecnologia. I due Paesi si daranno battaglia per l'innovazione in campi come l'intelligenza artificiale e si contenderanno mercati e catene di fornitura ad alta tecnologia.”

E infine, come si diceva già a proposito dell’azione climatica, l’America First di Trump e il suo ritirarsi da accordi e organi internazionali (l’Accordo di Parigi, l’OMS) apre nuove prospettive di posizionamento geopolitico e “morale”per la Cina, sempre più desiderosa di presentarsi come una potenza “responsabile”, che lavora per la stabilità globale, l’equità e la sostenibilità.

 

Immagine: Envato