L’ecosistema spazio italiano ha finalmente un motore propulsore che gli consentirà di fare “il salto” nel panorama internazionale della ricerca. In febbraio è stato infatti annunciato un finanziamento pubblico di 80 milioni di euro per un mega partenariato che riunisce, per la prima volta, tutti gli attori che operano nel settore spazio in Italia.
Space It Up è il nome del progetto presentato da una cordata di 33 soggetti – fra università, centri di ricerca pubblici e privati, aziende – e capitanato dal Politecnico di Torino, con l’obiettivo di sostenere la ricerca di base sullo spazio, ma anche di promuovere conoscenze e sperimentazioni che aiutino l’umanità a vivere in modo più sostenibile prima di tutto qui sulla Terra, a cominciare dall’utilizzo dei dati satellitari per la mitigazione dei rischi climatici. E poi ci sono alcune linee di ricerca che colpiscono decisamente l’immaginazione, come lo studio degli habitat lunari e marziani al fine di “rendere l’umanità una specie multi-planetaria”.
Ne abbiamo parlato con il referente nazionale del progetto, il professor Erasmo Carrera, ordinario di Ingegneria meccanica e aerospaziale al Politecnico di Torino e presidente dell’AIDAA, l’Associazione italiana di aeronautica e astronautica.
Space It Up è un mega-partenariato che riunisce, per la prima volta, tutti gli attori italiani del settore spazio. Come siete riusciti a mettere tutti insieme?
È in effetti una peculiarità di questo progetto: si è fatto lo sforzo di mettere insieme tutti gli attori che operano nelle attività spaziali in Italia ed è una cosa che non era mai successa. Tutto è partito dal bando sui partenariati estesi del PNRR, quello che chiamavamo PE15 e che in origine era il partenariato dedicato allo spazio, con una allocazione prevista di circa 160 milioni di euro. Ma questo bando alla fine non è stato pubblicato. C’era però, a quel punto, tutta una comunità “spazio” pronta. E così l’Agenzia spaziale italiana ha messo a disposizione 50 milioni di euro e, con altri 30 milioni offerti dal Ministero dell’Università e Ricerca (MUR), ha emesso un bando sostitutivo del PE15 per attività di ricerca di base. Il progetto Space It Up, coordinato dal Politecnico di Torino, rappresenta la proposta vincente selezionata dall’ASI. Il consorzio è in via di costituzione proprio in queste settimane e l’avvio delle sue attività è imminente. Si tratterà di ricerca di base, e infatti le linee di ricerca del progetto hanno un TRL (technological readiness level) piuttosto basso, cioè sono focalizzate sul concepimento di nuove idee e sulla creazione di prototipi che saranno utilizzati non nei prossimi due o tre anni ma nei prossimi dieci o venti. In linea, del resto, con le altre attività dei PE (partenariati estesi) del PNRR, anche se su fondi di altra natura.
Chi c’è nel partenariato e quali vantaggi porterà alla space economy italiana il fatto di avere tutti gli attori del settore che collaborano?
Abbiamo 13 università, cioè tutte quelle che si occupano di spazio. Il che significa non solo le grandi scuole di ingegneria come Politecnico di Torino, Federico II di Napoli, la Sapienza, Università di Bologna, Università di Pisa, Politecnico di Bari, Università di Padova e Politecnico di Milano, ma anche le grandi scuole di scienza dell'astronautica, molte legate al mondo Copernicus, cioè la costellazione di satelliti messa in orbita dall'Europa e utilizzata oramai da decenni da una grande comunità di scienziati e tecnici che si occupano di clima, di agricoltura, geologia, vulcanologia, protezione del pianeta e di svariati altri temi. Questi due grandi gruppi inizialmente costituivano due cordate (una guidata dal Politecnico di Torino e l’altra dall’Università di Trento) che avevano elaborato due proposte separate. Poi abbiamo deciso di metterci insieme e presentare una proposta unica aggregando anche tutti i centri di ricerca italiani sullo spazio (CNR, INAF, INFN, INGV, CMMC, IIT, eccetera) e il mondo dell’industria con dieci aziende, tra cui Leonardo e Thales, Telespazio, Argotec, Sitael. Questo partenariato, unico nel suo genere anche in Europa, diventerà un consorzio pubblico-privato che potrà agire oltre gli anni del progetto. Sarà un’entità unica che potrà offrire le proprie competenze a privati e partecipare a bandi nazionali ed europei (EU, ESA) e internazionali (collaborazioni con le agenzie spaziali e le imprese di tutto il mondo). L’impatto potrà essere notevole, anche perché l'Italia ha il grande vantaggio di avere la possibilità e le capacità per lavorare nel settore spazio a 360 gradi, coprendo sia l’attività di ricerca che quella industriale. L'unica parte che manca a questo partenariato è quella delle missioni scientifiche e dei lanciatori, non c’era budget sufficiente. Non è detto però che questo progetto non produca delle idee per costruire in futuro delle missioni scientifiche. Tutti gli altri ambiti della ricerca spaziale invece sono compresi.
Quali sono dunque nello specifico le linee di ricerca su cui lavorerà il partenariato?
Le attività di Space It Up sono divise in tre grandi parti. Una è l'esplorazione extraterrestre, sia robotica che umana, a cui sono dedicate due diverse linee di ricerca o spoke (8 e9). Poi ci sono la protezione della Terra (ad esempio da eventi catastrofici e meteorologici estremi) e lo sviluppo sostenibile del pianeta (spoke 5,6,7). Lo spoke 6 ha un tema di grande interesse: lo Space Weather, cioè gli effetti sulla Terra di tutto ciò che accade sul Sole. Gli eventi solari possono infatti causare delle crisi per i dispositivi che mettiamo in orbita, ma anche sulla Terra stessa, come l’interruzione delle comunicazioni elettromagnetiche. In particolare lo spoke 7 si focalizza invece sullo sviluppo sostenibile, cioè su come utilizzare la mole di dati che ci arriva dalle costellazioni di satelliti per fare previsioni e migliorare la conoscenza che abbiamo sul nostro pianeta. Ovviamente la prima applicazione riguarda la meteorologia, ad esempio per prevedere e gestire eventi catastrofici. Ma ci sono svariate altre applicazioni: il monitoraggio delle risorse come l’acqua, lo sviluppo di un’agricoltura più smart, la gestione del traffico. La terza parte del progetto, infine, è trasversale alle prime due e riguarda principalmente lo sviluppo dei sistemi satellitari e delle tecnologie di sensoristica e simulazione con Digital Twins delle diverse aree applicative del progetto.
Quale ruolo avranno dunque le tecnologie di frontiera come l’AI e i Digital Twins?
Ai Digital Twins è proprio dedicata una linea di ricerca a sé, in cui ci si occuperà di sviluppare modelli digitali per tutte le varie attività nello spazio, anche per l’esplorazione umana e robotica. Per quanto riguarda l’AI, l’esplorazione robotica della Luna, ad esempio, intende avvalersi di dati provenienti dalle prossime costellazioni satellitari, che avranno ruolo di GPS per le macchine che si muoveranno sulla superficie lunare utilizzando algoritmi di intelligenza artificiale. Anche i satelliti di Elon Musk, per fare un esempio popolare, sono gestiti da sistemi AI. Una volta i satelliti “tradizionali” erano messi in orbita a 36.000 km di quota e guardavano sempre lo stesso posto, girando insieme alla Terra. Il grande svantaggio di mettere in orbita dispositivi a così alta quota, dove facilmente venivano danneggiati dalle radiazioni, erano gli alti costi sia di messa in orbita che di manutenzione. Bisognava trovare qualcosa di più economico e che funzionasse bene. Si è cominciato così a usare la bassa orbita, diciamo intorno ai 400-500 km di quota, come da Torino a Venezia-Trieste. Ma un satellite a bassa orbita ci mette circa un’ora e mezza a fare il giro della Terra, il che significa che manda dati da posti diversi in ogni momento. Per osservare sempre lo stesso luogo è necessario avere un insieme di satelliti, e così Musk e altri hanno iniziato a costruire grandi costellazioni composte da centinaia e perfino migliaia di satelliti, gestite attraverso sistemi di intelligenza artificiale che controllano e ottimizzano tutte le operazioni. I satelliti a bassa quota inoltre consentono una migliore osservazione della Terra proprio per la maggior vicinanza. Sono fondamentali ad esempio per tentare l’osservazione delle profondità marine, dove gioca un ruolo importante anche lo sviluppo di sensori avanzati. E ancora, la maggior vicinanza consente connessioni internet più veloci. Questa convenienza della bassa quota era in realtà nota già molti anni fa. Il generale Luigi Broglio, che mise in orbita negli anni Sessanta il primo satellite italiano ed è considerato il padre della nostra ricerca spaziale, diceva che era inutile immaginare satelliti artificiali di grandi dimensioni perché il futuro sarebbe stato dei piccoli satelliti a bassa quota. E difatti aveva ragione. Ma ai suoi tempi non si poteva fare perché mancava la capacità informatica per gestire costellazioni di centinaia o migliaia di satelliti.
A proposito di satelliti, come si risolve il problema dei cosiddetti space debris, i rifiuti spaziali?
La verità è che già in fase di lancio si creano un sacco di detriti. Ora hanno cominciato a costruire lanciatori riutilizzabili per ridurli, ma il lancio di per sé crea una serie di detriti per i quali è difficile prevedere che fine faranno: possono decomporsi o impattare l’uno con l’altro. Diventano magari piccolissimi, ma viaggiando a migliaia di chilometri al secondo anche un frammento di un grammo può provocare grandi danni a ciò che incontra sulla sua traiettoria. E oltre ai detriti del lancio ci sono tutti i dispositivi messi in orbita. Fino a poco tempo fa nessuno si era mai veramente preoccupato di riportare a terra i satelliti dismessi inserendo dei sistemi di de-orbitaggio. Ma da qualche anno alcune startup hanno cominciato a farlo, come l’azienda italiana d-Orbit, che produce sistemi in grado di riportare a terra in modo sicuro i dispositivi da dismettere, così che non diventino spazzatura spaziale. Il problema però è che i dispositivi in orbita sono in gran parte militari, quindi è difficile avere un’idea di quanti ce ne siano davvero, perché ovviamente i dati non sono aperti. Il cosiddetto “quarto dominio” è oggi al centro degli interessi geopolitici e degli investimenti per la difesa degli Stati. La guerra in Ucraina ne è la dimostrazione. Tant’è vero che oggi, quando si lancia qualcosa in orbita, è anche importante avere informazioni circa il momento buono per lanciare, cioè quando non ci sono detriti in giro: informazioni che naturalmente si pagano. C’è chi fa space economy anche su questo! Ci sono comunque diversi progetti per andare “a fare pulizia” in orbita, ma sono molto costosi e chi ha la volontà di investirci? Una volta sono stato invitato come sherpa al G7 sullo spazio. Si parlava di space debris e qualcuno propose di obbligare tutti i soggetti che mettono in orbita dei dispositivi a recuperarli poi a fine vita, altrimenti non si dà il permesso di lanciare.
Una specie di responsabilità estesa del produttore per i satelliti?
Esatto. Ma la proposta fu accolta da un “no” unanime. Il vero tema comunque rimane la parte militare. Del resto la ricerca spaziale si è sviluppata per motivi militari. Quando gli americani videro lo Sputnik che girava sopra le loro teste si preoccuparono e lanciarono il progetto Luna, ma non è che avessero questo eccezionale interesse ad andare sulla Luna, e infatti poi si sono fermati.
E a proposito di andare sulla Luna, veniamo al punto che colpisce di più l’immaginazione. Fra gli obiettivi dichiarati del progetto c’è lo sviluppo di “tecnologie abilitanti per rendere l’umanità una specie multiplanetaria”. Quali sono queste tecnologie? C’è anche l’economia circolare?
È sempre stato il sogno dell’uomo quello di viaggiare e colonizzare altri luoghi. Lo abbiamo sempre fatto sulla Terra, ma ovviamente nello spazio è un po’ più complicato. Alcuni pensano che non succederà mai, per altri potrà accadere ma in maniera molto limitata. Molti concordano sul fatto che questa esplorazione potrà essere affidata a dei robot. In questo progetto studiamo sia la parte robotica che quella sullo sviluppo di un ambiente di economia circolare che permetta all’uomo di vivere nello spazio. Il tema è ovviamente molto complesso: se basta un virus a mandare in crisi la civiltà umana sulla Terra, immaginiamo cosa potrebbe succedere sulla Luna o su Marte. Un tema di studio fondamentale in questo campo è lo Space Weather, il fenomeno più importante del Sistema Solare, capace di influenzare tutto ciò che succede sui pianeti. L’equilibrio della Terra dipende dal campo magnetico, che deviando il vento solare ha permesso lo sviluppo dell’atmosfera. Quando perderemo il campo magnetico come è successo a Marte, non avremo più atmosfera. Dunque, la Luna non ha atmosfera, Marte ne ha pochissima. Vivere sulla loro superficie non è un’impresa semplice, e infatti le missioni che si immaginano sono in realtà molto brevi. Non sarà come nelle stazioni spaziali dove gli astronauti stanno mesi: sulle stazioni attorno alla Luna si immaginano permanenze di un paio di settimane perché non sappiamo quali effetti possano avere i raggi cosmici sul corpo umano. Non abbiamo sufficienti conoscenze, quindi per il momento studieremo la parte robotica, con macchine controllate dalla Terra che ci possano preparare il campo, scavando, costruendo strutture, eccetera. Studieremo inoltre come poter costruire un habitat umano sulla Luna: quali materiali presenti in loco si possono utilizzare per costruire, come produrre ossigeno, cibo, come coltivare in serra, come generare l’energia necessaria. Generare energia dal Sole, che potrebbe sembrare la soluzione più immediata, non sarebbe in realtà molto semplice, perché si tratterebbe di portare lassù tutti gli impianti. Russi e cinesi stanno perciò pensando di realizzare una centrale nucleare direttamente sulla Luna.
E Marte?
Per Marte ci concentreremo sulla parte robotica, visto che per il momento andarci non è ancora possibile. Sulla Luna ci sappiamo arrivare, ma per portare degli astronauti su Marte ci sono ancora parecchi problemi da superare. Servirebbe innanzitutto una macchina per trasportare un gruppo di astronauti per un tempo piuttosto lungo, e una tale macchina ancora non esiste.
La Luna è una severa maestra era il titolo di un famoso romanzo di fantascienza di Robert Heinlein. Che cosa possono insegnarci questi studi sugli habitat extraterrestri per vivere in modo più sostenibile qui sulla Terra?
Innanzitutto sulla Luna abbiamo scarsa disponibilità di risorse, quindi si tratta di applicare i principi dell’economia circolare per utilizzarle e riutilizzarle al meglio: una cosa che dovremmo imparare a fare meglio anche sulla Terra. Si tratterà poi di immaginare nuove modalità di coltivazione in ambienti estremi, e questo ci potrà aiutare a capire come fare lo stesso in zone del nostro pianeta dove oggi non riusciamo a coltivare. Pensiamo ad esempio alle aree desertiche: un deserto sembra un’oasi rispetto al paesaggio lunare! Anche lo studio delle reazioni del corpo umano in ambienti estremi potrà rivelarsi utile ai fini dello studio sull’adattamento climatico. Cercheremo poi di capire come sfruttare i materiali che ci sono sulla Luna: sappiamo che c’è acqua, ad esempio, oltre a materie prime preziose come le terre rare. Certo sarebbe molto complicato e costoso portarle sulla Terra, bisognerà capirne l’effettiva convenienza…
Potremmo definirla una palestra di resilienza?
Certo! Ma anche una stazione spaziale lo è, essendo un’occasione per vedere come reagisce il corpo umano in condizioni estreme, come l’assenza di gravità. Prima di mettere degli astronauti in orbita attorno alla Luna, e prima di consentire a degli esseri umani di trascorrere dei periodi relativamente lunghi sulla superficie lunare, abbiamo però ancora molte cose da studiare e capire, come gli effetti dei raggi cosmici. Non basta avere delle idee, bisogna verificare che funzionino. La fantasia ci aiuta, ma poi ci serve l’esperienza!
Immagine: NASA