Da Baku - Marciano Dasai è il ministro dell’ambiente del Suriname, piccolo paese caraibico considerato tra i più vulnerabili sul pianeta. Alla COP29 rappresenta oltre 600.000 surinamesi che ogni anno devono fare i conti con fenomeni climatici catastrofici: alluvioni, siccità, uragani, salinizzazione delle falde acquifere. E, come se non bastasse, l’innalzamento del livello del mare causato dal surriscaldamento globale di origine antropica minaccia le zone costiere dove vive circa l’87% della popolazione.

A Baku il Suriname si sta giocando un pezzo di futuro. Dasai lo spiega mostrando a Materia Rinnovabile un video girato qualche giorno fa nella città di Brokopondo, dove vive la tribù dei Maroons, discendenti di schiavi africani fuggiti dalle piantagioni coloniali delle Americhe. “Questo è un fiume che gli indigeni solitamente attraversano con la barca per muoversi, Ma non c’è più acqua. La siccità se l’è portata via”, dice preoccupato Dasai.

Per adattarsi a un problema di cui il Suriname non è responsabile ci vogliono soldi. Quelli che i paesi ricchi – più colpevoli della crisi climatica − stanno faticando terribilmente a mettere sul piatto. Sia tramite l’Adaptation Fund, sia nell’obiettivo di mobilitazione finanziaria del New Collective Quantified Goal (NCQG) che per ora soffre di un gap negoziale apparentemente incolmabile. Mentre i paesi in via di sviluppo chiedono 1.300 miliardi all’anno, il Nord globale vorrebbe spalmare la cifra (non ancora specificata ma nell’ordine delle migliaia di miliardi) in 10 anni.

Suriname, export di petrolio per l’adattamento

Nonostante sia stato un piccolo produttore petrolifero per oltre quarant’anni, il Suriname assorbe più anidride carbonica di quella che emette (carbon negative) grazie alla foresta pluviale che copre il 90% del suo territorio. “Stiamo usando le esigue risorse del budget nazionale per l’adattamento perché finché non diventa operativo il sistema di crediti di carbonio delle Nazioni Unite non ricaviamo nulla dalle foreste”, ci spiega il ministro Dasai. “Abbiamo bisogno di più soldi per adattarci a eventi come la siccità che vi ho mostrato.”

Nel piano di sviluppo del presidente Chandrikapersad Santokhi, le foreste sono un asset economico preziosissimo che non è il caso di erodere, deforestando qua e là per dare spazio al poco redditizio agrobusiness. Come dichiarato durante la prima settimana di COP29, Santokhi punterà invece a estrarre ed esportare petrolio “in modo sostenibile e responsabile”, al largo delle coste della capitale Paramaribo. Una “green development strategy” che permetterà di conservare le foreste, sviluppare le infrastrutture del paese, ricavare fondi per l’adattamento e riparare i danni causati dalla crisi climatica.

A partire dal 2028 il progetto GranMorgu da 10 miliardi di dollari prevede di produrre 220.000 barili di petrolio al giorno per una riserva potenziale di 750 milioni di barili. Il pozzo offshore Block 58, che secondo la Convenzione sulla Diversità Biologica si trova in un’area marina “ecologicamente o biologicamente significativa”, porterà nelle casse del governo 1 miliardo di dollari oltre a creare 6.000 posti di lavoro.

Dall’accordo finalizzato lo scorso 1° ottobre si evince che la compagnia petrolifera francese TotalEnergies e APA Corporation, società americana impegnata nell'esplorazione di idrocarburi, detengono ciascuna il 50% del progetto. Tuttavia la compagnia nazionale surinamese Staatsolie sembra avere l'intenzione di esercitare la propria opzione di partecipazione con una quota del 20%.

Secondo il ministro Dasai è stato un affare conveniente, di sicuro migliore di quello concluso dai vicini guyanesi. “L’obiettivo è esportare petrolio carbon neutral. A compensare le emissioni ci penseranno le nostre foreste”, spiega.

La Guyana fuori dalla povertà con il petrolio?

In una situazione simile si trova la confinante Guyana: paese povero, a elevata vulnerabilità climatica, con vaste distese di foresta pluviale e grandi riserve petrolifere. Dal 2019 il gigante petrolifero texano ExxonMobil estrae nel paese da una riserva soprannominata liza, che ai prezzi attuali al barile ha raggiunto un valore di mille miliardi di dollari.

Il giacimento ha trasformato la Guyana da uno dei paesi più poveri del Sud America in un petrostato che pomperà più greggio pro capite di Arabia Saudita e Kuwait entro il 2027. Ed è sulla buona strada per superare il Venezuela come secondo produttore di petrolio dell’America Latina, dopo il Brasile.

“Nonostante i crediti di carbonio maturati con la Norvegia per 200 milioni di dollari, la Guyana è sempre stato un paese povero”, spiega a Materia Rinnovabile Mark Bynoe, economista del Caribbean Community Climate Change Centre. “Ma adesso che ha il petrolio è la nazione con la crescita economica più veloce al mondo: il PIL è aumentato del 60% nell’ultimo anno.”

ExxonMobil detiene diritti su 11 miliardi di barili di petrolio recuperabile, il 45% dell’intero giacimento, la cui produzione costa meno di 35 dollari al barile. Il petrolio crudo guyanese è infatti uno dei più redditizi al di fuori dell’OPEC. La cinese CNOOC e l’americana Hess sono gli altri partner del consorzio che il 13 novembre ha annunciato di aver raggiunto i 500 milioni di barili. Ma cosa rimane al paese caraibico? I surinamesi direbbero noccioline.

Bynoe però non è d’accordo: “Per noi il petrolio è una cosa nuova, forse non abbiamo siglato il miglior contratto ma la situazione è in evoluzione e per ora il governo ricava il 14,5% degli interessi.” Grandi investitori come ExxonMobil si prendono tutti i rischi dell’esplorazione. Se trivellando non trovano nulla, vanno via a mani vuote. “Man mano che i costi di estrazione iniziano a diminuire, la nostra percentuale sul profitto aumenterà”, aggiunge Bynoe. “La Guyana potrebbe ottenere teoricamente fino al 52% dei profitti.” Il governo guyanese per i prossimi contratti chiederà il 10% delle royalties e all’incirca il 35% dei profitti.

L’adattamento “fossile” della Guyana

Circa il 90% della popolazione della Guyana vive in un’area minacciata da violente inondazioni e dall’innalzamento del livello del mare. Il piano di espandere e rigenerare la barriera di mangrovie che già oggi protegge parte della costiera verrà finanziato anche dall’Unione Europea. Ma per il paese caraibico adattamento significa anche migliorare sicurezza idrica, accesso all’acqua dolce per ogni cittadino, infrastrutture per il trattamento delle acque reflue, dighe e muri contro l’erosione costiera. Secondo Bynoe sviluppo e adattamento corrono sugli stessi binari e i profitti derivati dal petrolio giocano un ruolo importantissimo per costruire un paese resiliente alle devastazioni della crisi climatica.

La finanza climatica guyanese quindi non solo si baserà sul mercato dei crediti di carbonio per tenere lontano dalle foreste i cercatori d’oro e l'agrobusiness, ma punterà anche sulla produzione di combustibili fossili. Può suonare paradossale a orecchie occidentali, ma per alcuni paesi in via di sviluppo è l’unico modo per sopravvivere.

 

Immagine: Arvind Vallabh, Unsplash