A meno di due mesi dalla COP29, il vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a Baku (Azerbaijan) dall’11 al 22 novembre, la presidenza azera ha presentato un pacchetto di iniziative multilaterali che mirano a stimolare partnership, impegni climatici più ambiziosi e lo sviluppo di nuovi fondi per il clima.
Intanto, però, i negoziati sul New Collective Quantified Goal - ovvero la nuova cifra che i Paesi in via di sviluppo dovrebbero ricevere annualmente per ridurre le emissioni e adattarsi alla crisi climatica - si sono arenati. Il target da 100 miliardi di dollari all’anno non è più sufficiente.

Stoccaggio energetico e finanziamenti al centro dell'agenda della presidenza azera

Martedì 17 settembre la leadership azera della COP29 – presieduta dal Ministro dell’ecologia e delle risorse naturali dell’Azerbaigian Mukhtar Babayev – ha pubblicato un’agenda di 14 iniziative che per concretizzarsi a latere delle negoziazioni non necessitano del totale consenso delle delegazioni.
Dalla finanza climatica alla riduzione delle emissioni di metano, fino al potenziamento del mercato globale dell’idrogeno: la lettera di Babayev è un call to action in versione azera.

Tra le iniziative più importanti si nota l’impegno ad aumentare di sei volte la capacità globale di stoccaggio energetico rispetto ai livelli del 2022, raggiungendo 1.500 gigawatt entro il 2030. Per aggiungere o ristrutturare oltre 80 milioni di chilometri di reti elettriche entro il 2040, sono necessari investimenti massicci. La presidenza spera di replicare il successo diplomatico della scorsa COP28 a Dubai, quando 120 Paesi si sono impegnati a triplicare la capacità di energia rinnovabile entro il 2030.

“"Iniziative multilaterali come queste, promosse dalla presidenza di turno della COP, rimangono troppo spesso lettera morta dopo pochi anni”, commenta a Materia Rinnovabile Jacopo Bencini, policy advisor di Italian Climate Network. “Bisognerà vedere se Babayev riuscirà a coinvolgere un buon numero di Paesi per trasformare queste iniziative in azioni concrete”.
In passato alcune di queste iniziative multilaterali si sono rivelate efficaci, almeno a livello diplomatico. Lanciato alla COP26 di Glasgow nel novembre 2021, il Global Methane Pledge, che mira a ridurre del 30% le emissioni di metano di origine antropica entro il 2030, è stata siglato da 158 Paesi .

Un altro punto chiave del pacchetto è accelerare i progressi nei finanziamenti per il clima: il Climate Finance Action Fund ambisce a raccogliere contributi volontari da Paesi e aziende produttrici di combustibili fossili per sostenere i Paesi in via di sviluppo colpiti da disastri naturali. “Questo tipo di iniziative sfruttano un evento globale come la COP per formare coalizioni e accelerare i progressi”, ha dichiarato Babayev. “E contribuiranno ad alzare l’asticella delle ambizioni riunendo le parti interessate intorno a principi e obiettivi comuni”.

Il documento contiene anche diverse dichiarazioni e obiettivi, tra cui gli sforzi per ridurre le emissioni di metano nei sistemi di rifiuti e alimentari e sbloccare il potenziale di un mercato globale dell'idrogeno verde, affrontando le barriere normative, tecnologiche e finanziarie.

“Le iniziative omettono qualsiasi riferimento alla graduale eliminazione o transizione dai combustibili fossili”, ha protestato il movimento della società civile 350.org in un comunicato.
Sebbene Babayev abbia sottolineato la volontà di “affrontare i problemi più urgenti”, una questione cruciale rimane irrisolta: i Paesi non hanno ancora trovato un accordo sulla cifra da destinare annualmente alle nazioni più povere per mitigazione e adattamento.

I Paesi in via di sviluppo chiedono un fondo da migliaia di miliardi di dollari

Alla COP15 di Copenaghen nel 2009 le delegazioni decisero che i Paesi più ricchi dovessero mobilitare almeno 100 miliardi di dollari all'anno entro il 2020. Il target è stato raggiunto con due anni di ritardo.
Nonostante cresca il consenso per un fondo più sostanzioso, un’intesa sulla cifra da stanziare e su chi dovrebbe contribuire è ancora lontana. I negoziati intermedi di Bonn a giugno non hanno prodotto risultati concreti. Molti Paesi in via di sviluppo hanno avvertito di non poter fissare obiettivi di mitigazione più ambiziosi senza prima ricevere fondi adeguati.

A febbraio Simon Stiell, segretario esecutivo della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, ha dichiarato che il mondo dovrebbe mobilitare almeno 2.400 miliardi di dollari all'anno per mantenere gli obiettivi climatici globali a portata di mano.
Da un dialogo tecnico tenutosi due settimane fa è emerso però come ci sia maggiore consenso sull’ordine di grandezza del fondo da erogare annualmente: molte delle proposte inviate dalle delegazioni ragionano in termini di migliaia di miliardi.

Chi dovrebbe pagare?

L'Unione Europea, attualmente il maggior contributore ai programmi di finanziamento per il clima, non ha suggerito una cifra specifica, ma si baserà sull’ordine delle migliaia di miliardi. Meno titubante è la proposta inviata dalle nazioni arabe: “Dal 2025 al 2029 i Paesi sviluppati dovrebbero mobilitare 1.100 miliardi di dollari all'anno attraverso grant e iniziative multilaterali per sostenere i Paesi più poveri”. Si legge nel documento.

Nonostante le critiche da parte di Europa e Stati Uniti, la Cina - che è il più grande emettitore di CO₂ al mondo - ribadisce il proprio status di Paese in via di sviluppo ai sensi della convenzione sul clima dell'ONU.
Al momento oltre una ventina di Paesi “storicamente industrializzati” sono chiamati a contribuire al New Collective Quantified Goal. Ma non la Cina, che all'epoca del vertice sul clima di Rio de Janeiro nel 1992, quando fu stilata per la prima volta la lista dei Paesi in via di sviluppo, registrava un’economia inferiore a quella italiana.

Immagine: Baku, ph Lloyd Alozie (Unsplash)