È stato un autunno caldo per il pianeta. E non solo perché la temperatura media globale nell'autunno boreale 2024, che va da settembre a novembre, è stata la seconda più alta mai registrata, con +0,75°C rispetto alla media del periodo, ma anche per il susseguirsi di incontri ai vertici che, almeno sulla carta, dovrebbero coordinare gli sforzi internazionali per contrastare la crisi ecologica.
A novembre è stata la volta della COP16 sulla biodiversità e della COP29 sul clima. Poi è arrivato dicembre con la COP16 sulla desertificazione e, il 17 e il 18 dicembre, come un inaspettato regalo di Natale, sono stati pubblicati i Summary for Policymakers di due report dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) approvati, con qualche sporadica reticenza, dai rappresentanti di 150 governi presenti all’undicesima sessione di lavoro dell’organismo che si è appena conclusa a Windhoek, in Namibia.
I due nuovi report IPBES
Il Nexus Assessment e il Transformative Change Assessment analizzano, nei minimi dettagli, i principali fattori di perdita della biodiversità, puntando il dito sui soliti noti: un’economia di mercato che insegue il profitto, crea disuguaglianze sociali e provoca immensi danni ambientali, una politica frammentata e tesa a premiare i diritti e la volontà di pochi rispetto alla collettività, una scala di valori globale che non vede la natura come un elemento fondamentale da proteggere. Il primo ribadisce l’interconnessione tra le diverse crisi che il pianeta sta affrontando, come quella della diversità biologica, idrica, alimentare, sanitaria e climatica, e lancia l’amo al secondo nel ribadire che solo affrontandole insieme, promuovendo un approccio trasformativo e multisettoriale, potremo raggiungere gli obiettivi di sviluppo che l’umanità si è prefissata per il prossimo futuro.
Stimoli importantissimi che vengono snocciolati come elementi di un vitale vademecum, azioni imprescindibili per la creazione di una ricetta che, senza metafora alcuna, potrebbe davvero continuare ad alimentare l’umanità e tenerla in vita. Migliorandone persino la qualità dell’esistenza e diminuendo le disuguaglianze che, ancora oggi, imperversano in diverse regioni. Il problema inizia quando, che uno faccia parte o meno del settore, ci si rende conto che nulla di nuovo è stato aggiunto a quello che conosciamo da molto tempo, ossia che quello che sta accadendo è una responsabilità umana e che affrontare separatamente le crisi è fallimentare dal punto di vista economico, sociale e politico. Quello che cambia, purtroppo, sono i dati. Che non sono buoni e sono il frutto, anche, di Conferenze internazionali in cui continuiamo ad abbandonare le planarie con poche decisioni approvate e troppi compiti a casa da fare.
Il primo studio sulle interconnessioni tra biodiversità, acqua, cibo, clima e salute umana
Preparato da 165 esperti internazionali di alto livello attraverso un processo di revisione esteso iniziato nel 2021, il Summary for Policymaker del Nexus Assessment è una finestra sul report completo, composto da sette capitoli, che sarà pubblicato nel 2025. Rappresenta il primo studio scientifico ad affrontare in maniera completa ed esplicita le interconnessioni tra biodiversità, acqua, cibo, cambiamenti climatici e salute umana. E lo fa in un momento storico in cui la biodiversità registra un declino compreso tra il 2% e il 6% ogni decennio, in tutte le regioni del mondo e a tutte le scale spaziali, con un impatto a cascata che va dal funzionamento degli ecosistemi alla disponibilità e alla qualità dell’acqua, passando per la sicurezza alimentare e la salute umana, vegetale e animale.
Spiega come le crisi si influenzino reciprocamente, e come i costi per affrontarle separatamente siano molto più alti e minaccino il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs), dell'Accordo di Parigi e il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework. Ad esempio, se posticipati di un decennio, i costi per affrontare la perdita di biodiversità raddoppieranno e aggiungeranno almeno 500 miliardi di dollari annui al budget necessario ad affrontare la crisi climatica. Un avvertimento che risuona come un’eco lontana quasi quanto il 2021, quando venne pubblicato il report congiunto di IPBES e IPCC in cui si avvisava della necessità di affrontare queste due crisi in modo congiunto. Una richiesta avanzata anche da Joan Rockstrom, direttore del Potsdam Institute e premio Nobel per l’ambiente nel 2009, che da anni sostiene come una biosfera in salute sia un prerequisito fondamentale per mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici.
Secondo quanto si legge, alcuni dei fattori diretti e indiretti alla base della crisi ambientale, sono aumentati negli ultimi anni. Tra questi, l’insostenibilità dei sistemi agricoli che contribuiscono alla perdita di biodiversità, all'uso eccessivo di acqua, all'inquinamento e ai cambiamenti climatici, e che aggravano ulteriormente i problemi di salute di chi vive in regioni particolarmente vulnerabili. Infatti, se a livello globale negli ultimi secoli l'aspettativa di vita è maggiore, in particolare grazie a un’aumentata sicurezza alimentare e a farmaci che, il più delle volte, sono ottenuti dalla sintesi di sostanze naturali, l'aspettativa di vita media differisce di circa 20 anni tra le regioni del pianeta.
Tassi di mortalità infantile sono 10 volte più alti nei paesi meno sviluppati rispetto a quelli ad alto reddito: un dato che il report definisce consolidato. In America Latina e nei Caraibi, ad esempio, si registra circa il 20% del consumo globale di pesticidi, alcuni dei quali vietati in Europa e Stati Uniti proprio per gli effetti che possono avere sulla salute umana. Diete particolarmente ricche di zuccheri e povere di nutrienti sono diventate uno dei principali fattori di mortalità a livello globale, e sono responsabili di quasi 11 milioni di decessi solo tra gli adulti nel 2017. Senza contare l'inquinamento dell'aria e dell'acqua che, secondo le stime, hanno causato 9 milioni di decessi prematuri nel 2019 (il 16% di tutte le morti registrate a livello globale) per malattie respiratorie, cancro, allergie, difetti alla nascita, malattie neurodegenerative e deterioramento dello sviluppo cognitivo. Almeno 50 malattie, oggi, sono infatti attribuibili alla carenza di approvvigionamento idrico, alla qualità dell'acqua e ai servizi igienico-sanitari, tutti obiettivi contenuti anche nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che, ormai lo sappiamo, si sta letteralmente sgretolando sotto i nostri occhi.
Questo disaccoppiamento tra sviluppo economico e natura ha creato un cul de sac da cui sarà sempre più difficile uscire. Pensiamo, ad esempio, al comparto ittico che viene descritto come fondamentale per alimentare la popolazione umana ma che sta mettendo a dura prova la resilienza degli ecosistemi marini. Le barriere coralline sono minacciate congiuntamente dalla pesca non sostenibile, dall'inquinamento terrestre, dai cambiamenti climatici e dall'acidificazione degli oceani e con circa un terzo delle specie di corallo già ad alto rischio di estinzione, potrebbero scomparire a livello globale nei prossimi 10-50 anni. Impatti che riguardano potenzialmente quasi 1 miliardo di persone che vivono nel raggio di 100 km da una barriera corallina, pari a circa il 13% della popolazione globale, e che ne traggono beneficio in termini di cibo, medicinali, protezione dalle tempeste costiere e dall'erosione, turismo e attività ricreative e mezzi di sussistenza.
Le possibili soluzioni
A peggiorare la situazione sono le guerre. Mai così numerose come dal 2010 in poi. Oltre alla perdita di vite umane, i conflitti armati hanno intensificato la distruzione della biodiversità, danneggiato terreni agricoli acuendo la crisi alimentare, aggravato la crisi idrica e creato barriere alla collaborazione tra governi che, a oggi, non hanno dimostrato di essere all’altezza di queste sfide concatenate.
Ecco, dunque, che dopo una carrellata di fatti che la scienza prova a denunciare da molti anni, arrivano le soluzioni sotto forma di 71 opzioni raggruppate in 10 categorie: conservare o arrestare la conversione degli ecosistemi di elevata integrità ecologica; ripristinare gli ecosistemi naturali e seminaturali; gestire gli ecosistemi terrestri e acquatici laddove vi è uno sfruttamento antropico. Ma anche consumare in modo sostenibile; ridurre l'inquinamento e i rifiuti; integrare la pianificazione e la governance; gestire il rischio; garantire i diritti e l'equità e allineare i finanziamenti. Per poi arrivare all’ultima categoria che figura un po’ come l’ultimo scatolone di un lungo e faticoso trasloco: quello in cui metti dentro tutto ed etichetti come “altro”. Per implementare queste azioni è però necessario applicare degli approcci innovativi che, secondo il report, vanno dagli inquadramenti integrativi e olistici, agli approcci inclusivi, passando per considerazioni sull'equità e la responsabilità, processi di collaborazione e coordinamento, e approcci adattativi, riflessivi e sperimentali.
Il ruolo di comunità indigene e locali e della società civile
Ad aggiungere elementi di novità è il Transformative Change Assessment Report che descrive, forse per la prima volta apertamente in un documento così ufficiale, l’importanza delle popolazioni native e della collettività intesa come insieme di singoli cittadini che, sempre di più, si attivano per cambiare le cose.
Viene ribadito il ruolo e la forza delle organizzazioni della società civile che lottando contro la perdita di biodiversità e il declino della natura, sottolinea la necessità di un cambiamento trasformativo definito come un cambiamento fondamentale, a livello di sistema, di punti di vista, strutture e pratiche. Quest’ultimo, secondo quanto si legge, può portare alla creazione di un mondo equo e sostenibile come quello adottato da molte popolazioni native, e può modificare i punti di vista. Un dettaglio, quest’ultimo, non trascurabile visto che le tematiche ambientali e ancora di più i fattori che ne determinano la crisi, sono spesso ancorati a sistemi di valori e tradizioni difficili da sradicare: basti pensare, ad esempio, all’alimentazione.
Un'analisi ha studiato 2.802 mobilitazioni civili svoltesi tra il 1992 e il 2023 contro 46.955 minacce ambientali, tra cui perdita di biodiversità, contaminazione del suolo, cambiamento climatico, degrado delle acque sotterranee, delle acque di superficie e del paesaggio, eccesso di rifiuti e deforestazione. E ha dimostrato che più della metà delle proteste (54%) ha portato a riforme quali soluzioni tecniche, miglioramenti ambientali, applicazione di regolamenti esistenti, compensazione o trasferimento del progetto in altro luogo. Il 19% ha permesso di ottenere risultati con un alto potenziale trasformativo, tra cui il ritiro, la cancellazione o la sospensione temporanea delle attività responsabili delle minacce ambientali. Quasi un quarto (27%) ha avuto invece esiti regressivi, tra cui la repressione e la violenza contro gli attivisti.
Un’evidenza interessante riguarda gli episodi di violenza che, nell’ambito delle manifestazioni contro le industrie estrattive, si sono perpetrati spesso da parte di uomini e contro le donne e, in generale, le iniziative della società civile e i difensori dell'ambiente continuano a dover affrontare violenze e violazioni dei diritti in tutte le regioni del mondo, in particolare quelle più critiche dal punto di vista della tutela della persona.
Biodiversità, PIL e finanza
Oltre a un indubbio contributo in termini di miglioramento delle condizioni di vita umane, il cambiamento trasformativo può contribuire a risollevare la società umana dalla crisi finanziaria. Un punto su cui si discute da molto tempo e che viene ribadito anche dal report del gruppo di lavoro di Rockstrom e Locke che, nel 2021 parlavano per la prima volta di Nature Positive e ribadivano la necessità di passare a un modello fatto non più da tre cerchi che si intersecano ma da cerchi concentrici in cui il più esterno è costituito dall’ambiente, il secondo dalla società e solo il terzo, il più piccolo, dall’economia che, senza la natura, non potrebbe reggersi in piedi.
Nel 2023, infatti, più di metà del PIL mondiale (pari a circa 58 trilioni di dollari), è stato generato da attività moderatamente o fortemente dipendenti dalla natura, compresi settori ampiamente vulnerabili alla crisi della biodiversità, come l’agricoltura. Nel 2020, le industrie con una forte dipendenza dalle risorse naturali hanno generato 13 trilioni di dollari, pari al 15% del PIL mondiale, mentre quelle moderatamente dipendenti circa 31 trilioni di dollari, pari al 37% del PIL mondiale.
Eppure, nonostante a oggi sappiamo che la perdita di biodiversità è tra i primi 5 rischi d’impresa, il modello produttivo ed estrattivo non ha accennato a ridurre gli effetti negativi sull’ambiente che, al contrario, negli ultimi 5 anni sono peggiorati. Nel 2023, le esternalità associate a settori quali l’allevamento, l’agricoltura, l’estrazione di combustibili fossili e risorse forestali e la pesca sono state pari a $10.7 migliaia di miliardi mentre i flussi finanziari per la conservazione hanno oscillato tra i 135 e i 156 miliardi di dollari, pari a circa lo 0,25% del PIL globale che, è importante ribadirlo, dipende in misura moderata o elevata dalla natura. Eppure, anche questo, lo scriveva già nel lontano 2008 Sir Nichola Stern sottolineando il costo dell’inazione nell’ambito della crisi climatica.
Comunicare la crisi
Una discussione, sempre in voga nelle aule universitarie, nei corridoi, nelle conferenze e in momenti informali tra scienziati, politologi e in generale tra quelle persone che per vocazione e per scelta studiano e lavorano incessantemente per contrastare la crisi ambientale, è quella riguardante il messaggio da trasmettere, quali canali e strumenti usare, e come uscire da quella bolla di autoreferenzialità che ci fa sentire come se parlassimo costantemente davanti ad uno specchio.
“La società civile sta cambiando”, dicono in molti. “Sempre più persone sono sensibili”, affermano altri. E, in un certo senso, questo è vero. Ma se da decenni continuiamo a parlare costantemente di una crisi che sembra ormai inarrestabile non sarà che, forse, questa voglia di ascoltare e cambiare non va al passo con l’urgenza scientifica? Abbiamo accusato accademici e scienziati di essere noiosi e poco coinvolgenti. E molti di loro, oggi, sono anche esperti di comunicazione e parlano quotidianamente a comunità di migliaia di seguaci sui social. Abbiamo provato a dare la colpa al giornalismo, troppo generalista, quantomeno in Italia. Un dato di fatto innegabile ma che, di recente, ha visto la comparsa dei giornalisti scientifici e sempre più colleghi e colleghe, oggi, cercano di farsi spazio in un mondo dell’informazione spesso fazioso e frammentato.
Abbiamo provato a dare la responsabilità alla mancanza di informazioni chiare, e sono arrivate decine di report, anche in formato divulgativo e di facile comprensione. Talvolta persino corredati da supporti video o grafici. È stata poi la volta della mancanza di accesso ai dati. Ma sono comparsi gli smartphone, i dati illimitati, i magazine di ogni genere e, croce e delizia dell’informazione scientifica, i social network. Se è vero dunque, come diceva Miller, che "nell'era dell'informazione l'ignoranza è una scelta”, sarà forse il caso di iniziare a guardare dritto nello specchio e fare lo sforzo, non poi così terribile, di leggere e approfondire quello che la comunità scientifica ci sta dicendo da troppo tempo?
Immagine: Envato