Nell’ambito del Decennio delle scienze del mare per lo sviluppo sostenibile, la Commissione oceanografica intergovernativa dell'UNESCO ha pubblicato dieci White Paper, ognuno dedicato a un impegno collettivo specifico per rendere l’oceano sano e resiliente, sicuro, pulito, produttivo, accessibile, prevedibile e in grado di ispirare e coinvolgere. Materia Rinnovabile ha deciso di approfondire queste dieci sfide con un ciclo di dieci articoli, ognuno focalizzato su uno specifico paper.

Il secondo White Paper è dedicato alla protezione e al ripristino degli ecosistemi e della biodiversità marina. Al gruppo di lavoro per redigerlo hanno partecipato oltre 20 esperti internazionali, guidati da Frank Muller-Karger, professore presso il College of Marine Science dell'Università della Florida del sud, USA, e da Aileen Tan Shau Hwai, professoressa presso la School of Biological Sciences dell'Università delle Scienze della Malesia (USM).

L'obiettivo del gruppo era identificare le lacune e le priorità per stabilire gli indicatori chiave necessari a raggiungere la seconda sfida del Decennio del mare entro il 2030, che prevede di comprendere gli effetti di molteplici fattori di stress sugli ecosistemi oceanici e sviluppare soluzioni per monitorare, proteggere, gestire e ripristinare gli ecosistemi e la loro biodiversità in un contesto di cambiamenti ambientali, sociali e climatici.

Non sappiamo quali ecosistemi possano essere ripristinati

“Tutto ciò che l’umanità ha sviluppato, e le nostre stesse vite, dipendono da numerose altre forme di vita, sia sulla terra che nell'aria e nell'acqua”, spiega il professor Frank Muller-Karger a Materia Rinnovabile. “Per quanto riguarda l’oceano, non dipendiamo da una sola specie, ma da una diversità di organismi. Alcuni forniscono cibo e materiali, mentre altri contribuiscono filtrando i nutrienti, producendo ossigeno e sostanze chimiche che possono essere potenti farmaci, sostenendo le reti alimentari, assorbendo anidride carbonica o addirittura fungendo da indicatori di inquinamento. Tutti questi processi hanno un impatto significativo sulla nostra economia e sostengono industrie vitali come la pesca e il turismo”.

Per comprendere l'importanza di proteggere i nostri mari e il nostro stretto legame con essi, consideriamo le proiezioni dell'OCSE che indicano come entro il 2030 l’ocean economy potrebbe superare i 3.000 miliardi di dollari. Settori come l'acquacoltura, l'eolico offshore, la lavorazione del pesce e la costruzione e riparazione navale sono destinati a crescere rapidamente, contribuendo anche all'incremento dell'occupazione. Tuttavia, fattori come l’inquinamento, la crisi climatica e altre attività antropiche possono alterare nel tempo la composizione delle specie e degli organismi marini, generando incertezze sulla disponibilità degli stock ittici e dei servizi ecosistemici su cui abbiamo fatto affidamento fino ad ora.

“La domanda è: possiamo prevedere cosa accadrà alla vita marina da cui dipendiamo? Al momento è davvero difficile”, aggiunge Muller-Karger. “Non riusciamo a prevedere con precisione neanche l'andamento annuale o stagionale delle specie ittiche, su cui i pescatori basano le loro attività. Ci aspettiamo che questo tipo di pesce arrivi ogni anno. Su periodi più lunghi, come 50 o 100 anni, la previsione diventa estremamente complessa.” Inoltre, a causa della mancanza di dati, non è chiaro quali ecosistemi possano essere ripristinati. Alcuni potrebbero essere così degradati da rendere il ripristino troppo costoso o addirittura impossibile.

Frank Muller-Karger

Un problema di dati

Per sopperire a queste problematiche e comprendere i cambiamenti dinamici della vita marina il paper individua nella raccolta strategica dei dati uno degli elementi chiave per raggiungere gli obiettivi della seconda sfida del Decennio del mare. Le informazioni raccolte finora sono frammentate, spesso in formati non utilizzabili, non condivise o distribuite su diversi database, e riguardano soprattutto le zone costiere dei paesi sviluppati. Di conseguenza, le capacità di valutare e prevedere i cambiamenti degli ecosistemi nelle aree costiere vulnerabili, negli ambienti marini profondi e in luoghi remoti, come quelli parzialmente o permanentemente ghiacciati, sono ancora limitate.

“In questo documento, proponiamo di concordare su un minimo di informazioni condivise in modo coerente tra paesi, comunità, governi, industrie e settori della ricerca”, sottolinea Muller-Karger. “Dovremmo agire come nelle previsioni meteorologiche, dove standard precisi per misurare vento, temperatura e umidità, stabiliti a livello internazionali, vengono condivisi globalmente per creare previsioni accettate da tutti. Alcuni contribuiscono di più, altri di meno, ma esiste un minimo di dati condivisi in formati e unità standardizzate. Vogliamo vedere lo stesso nelle osservazioni oceaniche, includendo diversi fattori, tra cui temperatura, salinità, ossigeno e, ovviamente, dati biologici.”

Servono investimenti

Una volta raccolti i dati, un insieme minimo di variabili può essere condiviso globalmente per raggiungere gli obiettivi delineati nel rapporto e creare un beneficio collettivo. Inoltre, è cruciale coordinare e potenziare la coprogettazione tra le reti esistenti di istituti di ricerca, università, comunità indigene, istituzioni, decisori politici e settore privato. Attualmente si stanno realizzando importanti investimenti attraverso la ricerca, il settore finanziario e l'implementazione di programmi per la gestione dell'inquinamento, del carbonio, dell'energia e delle zone costiere.

Questi interventi possono essere coordinati meglio e seguire standard di gestione delle informazioni per raggiungere i risultati desiderati. Possiamo migliorare l'applicazione delle nuove tecnologie e di quelle esistenti, sviluppando soluzioni innovative per gestire le nostre attività, tenendo conto e pianificando gli effetti sulla biodiversità.

“Qualsiasi azione avrà una conseguenza economica sulla biodiversità, che può essere sia positiva che negativa”, continua Muller-Karger. “Se non comprendiamo la nostra dipendenza da questi organismi in una determinata area, rischiamo di compromettere i benefici che ne traiamo, con ricadute sociali ed economiche. Il documento non fornisce indicazioni specifiche su come investire, poiché questo è un settore in continua evoluzione. Tuttavia, vorremmo che il settore finanziario prestasse maggiore attenzione a questi processi e problematiche.”

 

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L’importanza delle comunità indigene per gli ecosistemi marini

Un altro elemento fondamentale quando si parla di rispristino degli ecosistemi e di biodiversità è il sapere delle comunità indigene, che si basa sulla conoscenza sviluppata attraverso i secoli e i millenni. “C'è un malinteso diffuso secondo cui la conoscenza tradizionale si sviluppa in modo diverso o è diversa da quella accademica”, avverte Muller-Karger.

“Il rapporto ha coinvolto diversi esperti indigeni che criticano l'uso dei termini 'scienza occidentale' e 'sapere tradizionale', che implicano una sorta di superiorità geografica. Le comunità indigene sviluppano conoscenze come chiunque altro: affrontano problemi, formulano domande e raccolgono osservazioni. Le informazioni accumulate nel corso delle generazioni vengono interiorizzate in modi diversi a seconda delle comunità, e poi traggono conclusioni, spesso agendo su di esse. Oggi molti membri delle comunità indigene lavorano in istituzioni accademiche, private e governative. Il rapporto sottolinea che questi processi non sono diversi da quelli adottati da chiunque altro, e l'aspetto fondamentale è rispettare le terre e le acque storiche, le culture, e collaborare per raggiungere obiettivi comuni.”  

In passato, le conoscenze indigene sono state spesso sfruttate senza apportare veri benefici alle loro comunità. È essenziale rivedere questo approccio, in linea con quanto definito nella Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite (UNDRIP). Le strategie coprogettate con le comunità indigene dovrebbero includere linee guida chiare sulla proprietà intellettuale, la gestione dei dati e la protezione contro un uso improprio di tali conoscenze, in modo simile alle protezioni adottate dalle università e dal settore privato.

“Non si tratta semplicemente di andare presso le comunità indigene per dire loro cosa fare, sfruttare le loro risorse o conoscenze e poi andarsene”, conclude Muller-Karger. “È piuttosto una questione di stabilire rapporti e una relazione con diversi gruppi di persone. Bisogna sviluppare una strategia che permetta alle comunità locali di accedere a informazioni migliori, maggiori strumenti e di avere il potere di gestire le proprie risorse in modo più equo.”

 

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