Può suonare paradossale, ma non sempre aumentare la raccolta differenziata di rifiuti porta benefici ambientali, almeno quando infrastrutture e mercato di materie prime seconde non sono pronti a consentirlo. Secondo Andrea Fluttero, presidente di UNIRAU (Unione imprese raccolta riuso e riciclo abbigliamento usato) è il caso della raccolta differenziata dei rifiuti di prodotti tessili urbani, obbligatoria in Europa da gennaio 2025, ma che senza un’adeguata impalcatura normativa ed economica potrebbe a breve sommergere gli operatori del riuso di indumenti difficili da rivendere. L’abbiamo intervistato per approfondire il tema.
Presidente Fluttero, qualche giorno fa ha scritto su Linkedin: “Se si aumentano le raccolte il sistema si bloccherà e avremo capannoni pieni di rifiuti tessili urbani”. Può spiegarci meglio?
Il sistema sta per bloccarsi. Il riuso ha finora funzionato, ma il mercato non è illimitato. Con l'obbligo di raccolta differenziata in Europa, i quantitativi da gestire stanno aumentando, mentre gli sbocchi di mercato rimangono invariati o diminuiscono. Il mercato dell'usato è saturo, il valore delle raccolte è in calo per la semplice legge di mercato e molte cooperative non riescono più a coprire i costi della raccolta con la vendita dei rifiuti raccolti alle imprese della selezione che ricevono offerte a prezzi sempre più bassi da altri paesi europei.
Che soluzione propone UNIRAU?
Riteniamo che non sia il caso di spingere sull'aumento della raccolta differenziata fino a quando non entreranno in gioco sistemi di EPR (responsabilità estesa del produttore) con risorse adeguate per affrontare queste criticità. È necessario un piano strutturato di investimenti per sviluppare impianti di riciclo efficaci. L’EPR deve essere pensato tenendo conto che il problema industriale è soprattutto legato alla gestione di ciò che non è riusabile e diventa un costo ambientale ed economico non più sostenibile dalla filiera. Serve una strategia chiara che includa incentivi alla raccolta, alla ricerca e allo sviluppo tecnologico.
Per quale motivo dice che il mercato è saturo?
Il mercato dell’usato è molto importante e deve essere preservato, ma come già detto non è illimitato, mentre il riciclo della parte non riusabile è oltre il 50% della raccolta. A differenza di altre filiere di rifiuti, come i RAEE che contengono metalli preziosi e materiali facilmente separabili, riciclabili e rivendibili, il tessile non ha un mercato consolidato per le materie prime seconde. Nei RAEE, la separazione dei materiali avviene con tecnologie efficaci, e i componenti hanno un valore economico. Nel tessile, invece, la varietà di materiali e la presenza di fibre miste rende il riciclo tecnologicamente molto più complesso e meno redditizio, soprattutto in Europa.
A che punto siamo con il riciclo del tessile in Italia?
Ne parlano in tanti, ma la realtà è che la tecnologia per il riciclo fibra-fibra non esiste. I macchinari attuali possono solo facilitare la selezione, ma non riciclano le fibre. I prodotti tessili hanno composizioni chimiche e strutturali troppo varie. A oggi, solo la lana può essere riciclata, come a Prato, ma rappresenta appena il 3% dell'immesso sul mercato. È bene ricordare che i rifiuti tessili urbani sono altamente disomogenei: abbigliamento, accessori, calzature, tessili domestici. Ogni prodotto ha materiali diversi, spesso mischiati tra di loro, come lana, cotone, lino, seta, gomma, nylon, poliestere, acrilico metalli, corda, pelle etc, con componenti di varia natura come bottoni, cerniere, imbottiture e tanto altro. Questa complessità rende per ora difficilissimo il riciclo fibra-fibra.
Altre criticità?
Ogni prodotto può contenere più materiali, additivi, elastomeri e coloranti, rendendo difficile il riciclo e la certificazione delle materie ottenute. Diversi lotti di tessuti hanno caratteristiche chimiche e strutturali differenti. È vero che ci sono alcuni materiali che possono essere riutilizzati per imbottiture o pannelli isolanti, ma il mercato per questi prodotti è limitato. Servirebbero norme di ecodesign per contrastare il fast fashion e ricerca tecnologica per migliorare la riusabilità e la riciclabilità dei prodotti, ma siamo ancora lontani da soluzioni pratiche.
A gennaio ci sono state le consultazioni sulla normativa EPR, crede che si scioglieranno alcuni nodi?
Molti dei produttori italiani coinvolti nelle discussioni sull’EPR faticano a comprendere la realtà della filiera. La maggior parte dell’abbigliamento che usano le persone comuni viene prodotto in Cina, Pakistan, Vietnam. I marchi indossati dalla maggior parte delle persone sono quelli che immettono sul mercato grandi quantitativi e sono i veri soggetti che saranno coinvolti nei sistemi EPR per gestire le raccolte urbane. Al momento però i principali interlocutori con il MASE sono quei produttori di semilavorati e tessuti di lusso che rappresentano una prestigiosa ma piccola fetta di mercato.
A livello europeo c'è chi chiede un EPR il più possibile armonizzato.
Sarebbe utile. L'Europa sta lavorando a una direttiva, non a un regolamento unico. Ogni paese la interpreterà a modo suo. L'Italia sta cercando di anticipare la normativa, ma temo più per un fatto di bandiera che per reale efficienza del sistema che avrebbe bisogno di essere il più possibile armonizzato a livello europeo.
Si riferisce agli eco-contributi, immagino. Potrebbero scoraggiare ad acquistare fast fashion?
In teoria sì, ma in pratica l'impatto è minimo. Pochi centesimi per capo non scoraggeranno i consumatori a comprare fast fashion. Se una felpa costa 9,90 euro e aggiungiamo un eco-contributo di 1, arriva a 10,90 euro. La soluzione è la regolamentazione: bisognerebbe impedire l’immissione sul mercato di prodotti di bassa qualità, piuttosto che tassarli leggermente.
In copertina: Andrea Fluttero