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Se Trump gioca a poker con l’economia globale, la Cina sembra invece aver ingaggiato una sfida a Go.
In un concitato e arrogante gioco al rilancio, nella giornata del 9 aprile il presidente statunitense ha ufficializzato i suoi dazi globali, poi li ha sospesi quasi tutti per 90 giorni, e intanto ha alzato quelli contro la Cina dal 54% (il 20% già in vigore più il 34% calcolato con la famosa – e fumosa – formula) al 104%, per arrivare infine a un assurdo 125%, che diventa un folle 145% se si considera anche la sanzione per il fentanyl.
Al circo di Trump, Xi Jinping e i suoi ministri oppongono una posizione inamovibile, annunciando l’11 aprile un innalzamento dei dazi fino al 125%, ma spiegando anche che non rilanceranno oltre perché già così i prodotti americani non saranno più commercializzabili in Cina. Di certo non ci pensano proprio ad andare a “baciare il culo” a Trump, per usare un’espressione ormai sdoganata dalla diplomazia americana.
“Se gli Stati Uniti insistono nel seguire questa strada, la Cina combatterà fino alla fine”, aveva annunciato qualche giorno fa il Ministro del Commercio Wang Wentao. E così ora la Repubblica Popolare studia la situazione, aspetta e si prepara a una lunga battaglia. Perché nel Go, l’antico gioco di strategia cinese, la pazienza e la visione di lungo termine sono tutto.
Prima mossa: mettere le cose in chiaro
La prima cosa da fare, quando ci si appresta a una lunga battaglia, è preparare il campo.
Per questo il Global Times, quotidiano in inglese legato al Partito Comunista Cinese, la mattina del 9 aprile ha anticipato l’entrata in vigore dei dazi uscendo con un lunghissimo position paper governativo intitolato China's Position on Some Issues Concerning China-US Economic and Trade Relations.
Dire che, con questo documento, la Cina si è tolta qualche sassolino dalla scarpa sarebbe un eufemismo. Ovviamente le oltre 40 pagine di analisi insistono sul fatto che, nella storia dei rapporti commerciali tra le due potenze, la Repubblica Popolare è sempre stata la parte più responsabile, quella che ha sempre ottemperato a tutti i suoi doveri negli accordi bilaterali e quella che ha subìto tutti i trattamenti ingiusti e arbitrari dalla controparte. Sarebbe interessante, a questo punto, se il governo statunitense rispondesse nel merito a tutte le recriminazioni, ma in questo momento aspettarsi da quel lato qualcosa di diverso da sproloqui e minacce è vana speranza.
Intanto però, al netto della parzialità del punto di vista, il paper cinese contiene parecchi dati oggettivi interessanti per inquadrare l’entità e la complessità dei rapporti economici Cina-USA, e soprattutto l’interdipendenza dei due Paesi.
Innanzitutto, gli Stati Uniti rappresentano attualmente la principale destinazione delle esportazioni di beni della Cina (14,7% del totale) e la sua seconda fonte di importazioni (6,3%), mentre la Cina è la terza destinazione delle esportazioni (7%) e la seconda fonte di importazioni (13,8%) degli Stati Uniti.
Fermandosi semplicemente a questi primi dati, il deficit lamentato da Trump parrebbe evidente. Il dato secco va tuttavia inquadrato in un trend che dice una cosa diversa. Secondo statistiche dell’ONU, da quando la Cina è entrata nella WTO nel 2001, le esportazioni statunitensi verso il gigante asiatico sono infatti cresciute a un ritmo molto più veloce rispetto a quelle verso tutti gli altri Paesi. Nel 2024 le esportazioni di beni statunitensi in Cina hanno raggiunto i 143,55 miliardi di dollari, con un aumento del 648,4% rispetto al 2001: un incremento che ha superato di gran lunga la crescita complessiva delle esportazioni USA, pari al 183,1% nello stesso periodo.
Insomma, se questo è stato il trend degli ultimi vent’anni, è abbastanza chiaro che ostacolare il libero scambio fra i due Paesi con barriere insormontabili non è la strategia migliore per vendere più prodotti statunitensi ai cinesi.
Un altro punto fondamentale è cosa si scambiano i due Paesi. “Il commercio bilaterale tra Cina e Stati Uniti è altamente complementare”, sottolinea il position paper.
In effetti la Cina importa dagli Stati Uniti grandi quantità di prodotti agricoli di base come la soia e il cotone, di cui è il principale mercato per gli americani. Ed è inoltre il secondo mercato per i circuiti integrati e il carbone statunitensi e il terzo per i dispositivi medici, il gas di petrolio liquefatto e le automobili (non elettriche).
Gli Stati Uniti invece importano dalla Cina la maggior parte dei pesticidi utilizzati dalla loro industria agricola; e poi comprano macchinari e apparecchiature elettriche, elettrodomestici, mobili, giocattoli (sono il maggiore importatore al mondo) e materie plastiche.
Per la maggior parte di questi mercati sarà difficile trovare un rimpiazzo in breve tempo, e a soffrirne saranno sia le aziende che i consumatori di entrambi i Paesi.
Seconda mossa: far ragionare l’avversario
Chiarita la situazione e le rispettive posizioni di partenza, la seconda cosa da fare è provare a ragionare sui presunti torti arrecati e subìti.
Il “torto” principale denunciato da Donald Trump è il deficit della bilancia commerciale ai danni degli Stati Uniti. E se invece la bilancia fosse sostanzialmente in equilibrio?
È quello che sostiene il paper del governo cinese, e che, a onor del vero, negli ultimi due giorni hanno sottolineato per loro conto anche altri Paesi, come Singapore con le parole, tanto chiare quanto pacate, del Primo Ministro Lawrence Wong.
Le valutazioni di Trump si basano infatti esclusivamente sullo scambio di merci, e non tengono in nessuna considerazione i beni immateriali, il commercio di servizi. Pare assurdo, in una società come quella statunitense (e occidentale) che vive praticamente connessa 24 ore su 24, e in cui la maggior parte delle persone è impiegata nel terzo settore, “dimenticarsi” proprio di tutti quei beni che non hanno bisogno di viaggiare in container e bastimenti per essere scambiati. Eppure l’export americano di servizi software, il turismo, i viaggi-studio, l’industria culturale e dell’entertainment, i servizi finanziari sono rimasti completamente fuori dai conti della serva di Trump. Una dimenticanza che tutto sembra fuorché casuale.
Il governo cinese, sulla base di dati pubblici dell’USDOC, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, ha dunque rifatto i conti includendo tutti i settori lasciati fuori, e anche le vendite locali delle filiali delle imprese nazionali nell'altro Paese (cioè le filiali cinesi di aziende americane, e viceversa).
Ne risulta che, per il commercio di servizi, la Cina ha un cospicuo deficit nei confronti degli Stati Uniti che si concentra soprattutto in tre settori: le royalties sulla proprietà intellettuale, i trasporti, e i viaggi, compresi quelli legati all’istruzione (anche se negli ultimi due mesi Trump si sta davvero impegnando a far scappare studenti e ricercatori cinesi).
I due deficit – quello americano per le merci e quello cinese per i servizi – si compensano, e la bilancia commerciale risulta così sostanzialmente in equilibrio.
Insomma, dicono i cinesi, stando così le cose non c’è nessun motivo per sbraitare tanto e ingaggiare una guerra commerciale che non può, per sua natura, avere vincitori: sarebbe meglio cercare una soluzione win-win.
Terza mossa: preparare le armi
Visto che sarà difficile che Trump venga a miti consigli e che i dati oggettivi e la matematica non sembrano interessarlo più di tanto, in Cina si preparano le armi per combattere.
Gli assi nella manica cinese sono sostanzialmente tre: i rapporti multilaterali, le terre rare e il debito americano.
I primi due sono già stati in parte messi in campo. Xi Jinping e i suoi ministri stanno lavorando alacremente per rafforzare innanzitutto i legami con gli altri Paesi asiatici, portando avanti la visione di “un’Asia per gli asiatici” dove l’influenza americana sia sempre più minimizzata. In questo senso va ovviamente letto lo storico incontro trilaterale del 30 marzo con Giappone e Corea del Sud, e il tour nel Sudest Asiatico che, dal 15 aprile, porterà Xi prima in Malaysia (che quest’anno detiene la presidenza dell’ASEAN) e poi in Vietnam e Cambogia, entrambi fortemente colpiti dai dazi di Trump prima della temporanea sospensione. Anche i ripetuti appelli e inviti all’Unione Europea rientrano in questa strategia, e la molto cordiale telefonata intercorsa l’8 aprile fra la Presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen e il Primo Ministro Li Qiang ha dato un segnale importante in questa direzione.
Per quanto riguarda il secondo asso nella manica, il quasi monopolio cinese sulle terre rare (93% dell’output globale) e la posizione di forte vantaggio nelle catene di fornitura di altri minerali critici (rame, cobalto, litio, grafite) non è certo un mistero. E non è una novità che la Cina utilizzi le restrizioni all’export di queste fondamentali materie prime come un’arma commerciale (a dicembre ad esempio ha bloccato il commercio di tre minerali critici verso gli USA, in risposta alle restrizioni statunitensi sull’export dei microchip).
Così, se il surreale crescendo di percentuali rilanciate da Trump ha catalizzato l’attenzione dei media in questi giorni, più sottotraccia sono passate le restrizioni all’esportazione che Pechino ha implementato all’indomani del Liberation Day, e che interessano altri sette minerali fondamentali per settori come l’automotive, l’elettronica e la difesa.
Infine, nell’arsenale cinese c’è ancora un’arma, più rischiosa e controversa: il debito americano. La Cina è il secondo creditore al mondo degli Stati Uniti. Dopo il Giappone, che detiene più di mille miliardi di debito a stelle e strisce, e prima del Regno Unito (722 miliardi), la Repubblica Popolare ha in mano ben 759 miliardi di titoli di Stato USA.
Sebbene il vicepresidente americano JD Vance faccia il bullo, dichiarando a Fox News che gli statunitensi sono stanchi di prendere in prestito soldi dai “bifolchi cinesi” (“chinese peasants”), la Cina potrebbe a un certo punto decidere di rimettere sul mercato i titoli statunitensi in suo possesso, con l’intento di causarne un deprezzamento e mettere nei guai l’economia USA. Certo, tutto dipenderebbe dalla reazione del mercato. Ma è un rischio che gli Stati Uniti possono permettersi di correre?
In copertina: foto di Rafik Wahba, Unsplash