Mai come ora, con il crescente consumo di prodotti fast fashion che ostacolano la transizione circolare del settore tessile, l’Italia ha bisogno di un sistema EPR (responsabilità estesa del produttore). Un modello fondato sul principio del “chi inquina paga” che responsabilizza i produttori nella gestione di tutto il ciclo vita dei prodotti tessili immessi sul mercato, potenziando le attività di raccolta, riutilizzo e riciclo.
L’istituzione di un EPR multi-consortile implica un cambio di paradigma radicale il cui testo di decreto, però, non mette ancora d’accordo tutti gli attori della filiera. In primis i comuni e le cooperative sociali e non, che da tempo gestiscono la raccolta e il riutilizzo degli indumenti.
EPR tessile, nuove consultazioni a gennaio
Dalla prima bozza di decreto uscita a marzo 2023 non ci sono stati passi in avanti significativi. La partita è ancora apertissima e si lega a doppio filo con Bruxelles, dove è in corso il trilogo sulla revisione della Waste Framework Directive, la direttiva europea che armonizzerà lo schema EPR in tutti i paesi membri.
A ottobre il MASE ha riavviato i lavori sullo schema e sono previste nuove consultazioni a gennaio 2025. Ma la sensazione è che si vogliano aspettare le indicazioni della direttiva europea. Secondo quanto dichiarato da Laura D’Aprile, capo dipartimento per lo sviluppo sostenibile del Ministero dell’ambiente, a Ricicla.tv “l’obiettivo è farsi trovare pronti con un testo che possa essere il più possibile bilanciato e che possa costituire un primo riferimento a livello europeo”. Secondo gli stakeholder, l’approvazione del decreto potrebbe arrivare nella primavera-estate 2025.
La partita sul riutilizzo
L’Italia è tra i paesi che immettono sul mercato il maggior numero di prodotti tessili a livello europeo, con 23 kg per abitante ogni anno. Nonostante l’obbligo della differenziata scattato nel 2022, le attività e le infrastrutture di raccolta non sono aumentate come previsto. Secondo gli ultimi dati ISPRA a disposizione, i comuni, tramite enti gestori e cooperative, hanno intercettato circa 171.000 tonnellate nel 2023. Una decina di migliaia in più rispetto all’anno precedente. Tuttavia il tessile rappresenta ancora solo lo 0,9% della raccolta differenziata totale.
Oggi il sistema di raccolta – prevalentemente di abiti usati – è sostenuto economicamente dal mercato del second hand, ovvero è la vendita dell’usato a finanziare le attività di raccolta. Uno schema che finora non ha comportato costi per i comuni. “Stiamo però assistendo a una migrazione su prodotti di bassa qualità e basso costo, che poi diventeranno difficili da vendere come abiti di seconda mano”, spiega a Materia Rinnovabile il referente di ANCI Franco Bonesso. Insomma, se gli indumenti non sono riutilizzabili non si vendono, e senza incassi il sistema non regge. Bonesso teme che l’inserimento dei produttori nelle attività di raccolta rischi di lasciare agli operatori del riutilizzo solo le briciole. “La priorità di molti produttori sembra quella di avere materiale per il riciclo piuttosto che il riutilizzo”, spiega Bonesso. “La tentazione di raccogliere il materiale con modalità uno-contro-uno nei negozi impoverirà i nostri flussi di raccolta e i comuni dovranno essere indennizzati”.
Michele Priori, consigliere d’amministrazione del consorzio Cobat Tessile, non vede particolari criticità nella bozza di decreto e crede che riutilizzo e riciclo siano due meccanismi che si integrano perfettamente. “In Italia viene raccolto solamente il 20% dei rifiuti tessili”, spiega a Materia Rinnovabile. “Al lavoro lodevole delle imprese del riutilizzo va però aggiunta altra capacità di raccolta e di riciclo, sempre nel rispetto della gerarchia dei rifiuti.” Per Cobat Tessile è cruciale istituire al più presto un sistema di responsabilità estesa del produttore anche per avviare una filiera dedicata al riciclo. Al momento solo l’1% delle fibre riciclate viene usato per nuovi capi.
Le cooperative sociali non vogliono essere dimenticate
I principi dell’economia circolare parlano chiaro: prima viene il riutilizzo. A questa delicata fase di prevenzione al rifiuto lavorano da anni numerose imprese sociali sparse sul territorio italiano, che oltre a “salvare” i vestiti dall’incenerimento o dalla discarica, offrono opportunità lavorative a persone svantaggiate.
Secondo Giuseppe Finocchiaro, presidente della rete di cooperative sociali RETESSILE, il testo di decreto attuale non rispecchia il ruolo distintivo raggiunto dalle cooperative in diversi aspetti della filiera: dalla raccolta alla selezione, dalle sartorie sociali ai negozi dell’usato. “Rivendichiamo il ruolo cruciale delle cooperative sociali nella gestione del tessile”, commenta Finocchiaro. “Chiediamo che, come in altri paesi, venga destinata una quota fissa di rifiuto tessile alle imprese che investono in progetti di inclusione lavorativa per categorie svantaggiate.”
Una delle imprese di RETESSILE si chiama Vesti Solidale. Dal 1998 opera nella raccolta, riutilizzo e riciclo dei prodotti tessili e lo scorso marzo ha inaugurato a Rho (Milano) il Textile Inclusive Hub, il più grande impianto di recupero tessile del Nord Italia con una capacità di trattamento fino a 20.000 tonnellate di rifiuti tessili all'anno. “Storicamente gran parte della raccolta tessile è stata realizzata da imprese sociali, sarebbe un peccato non preservare l’aspetto sociale della filiera”, ci dice Matteo Lovatti, presidente di Vesti Solidale. “Ci auspichiamo che non prevalga l’interesse di una parte, devono sedersi a un tavolo tutti gli attori. Il mondo della moda è italiano, abbiamo una grandissima opportunità per ridurre gli impatti ambientali dell’industria.”
Immagine: Envato