Lasciare il petrolio nel sottosuolo per volontà popolare. Questo hanno approvato ieri gli ecuadoregni con un referendum storico per fermare lo sviluppo di tutti i nuovi pozzi petroliferi nel parco nazionale Yasuní in Amazzonia, una delle regioni con la maggiore biodiversità del pianeta. Una decisione che ha visto oltre il 58% dei cittadini e delle cittadine dell’Ecuador a favore dell’iniziativa. Un voto tenutosi durante un tesissimo primo turno delle elezioni presidenziali, ma che ha subito adombrato per la sua rilevanza le tensioni politiche che permangono in un paese che rimane politicamente instabile.

Yasunì è una delle aree di maggiore biodiversità del mondo, con più specie di piante e insetti (oltre centomila!) dell’intero Nordamerica. Non solo, l’area è la casa di due gruppi indigeni in isolamento volontario: i Tagaeri e i Taromenane, di cultura waorani, minoranze la cui sopravvivenza è minacciata dall’estrattivismo nel paese.

Scrissi per la prima volta del progetto di tutela del parco nazionale Yasuní, noto anche come Blocco 43 o Itt (Ishpingo-Tiputini-Tambo-cocha, l’area del giacimento) nel 2010. Per tutelare l’area l’allora presidente Rafael Correa volle provare a creare, unico nel suo genere, un fondo speciale gestito dall’Onu per lasciare il petrolio nel sottosuolo in cambio di compensazioni economiche legate ai guadagni che la riserva petrolifera avrebbe potuto generare.

Si parla di 726 milioni di barili di petrolio, dal valore del mercato (di allora) di 7 miliardi di euro, da pagare con un fondo finanziato dai paesi industrializzati della metà del valore per tutelare un paradiso naturale, dove trovano spazio oltre 665 specie di alberi. La proposta era stata avanzata nel 2007, quando stava prendendo piede il meccanismo REDD+, promosso dai negoziati ONU per il clima, per fermare la deforestazione delle grandi foreste primarie.

Dietro la proposta c’era il grande intellettuale socialista ecuadoregno Alberto Acosta, uomo forte di Correa, economista di sinistra, eminenza grigia dietro la riforma costituzionale ecuadoregna e allora ministro per l’Energia in un paese che basa la propria sussistenza energetica sul petrolio. Nel libro La Maldición de la Abundancia (2009) Acosta esplicita chiaramente come il “petrolio potrebbe generare miliardi di dollari di danni all’ambiente. [...] Dobbiamo quindi diventare un’economia meno basata sul settore estrattivo”.

Ma il fondo, che avrebbe dovuto raggiungere la quota di 3,5 miliardi di euro entro il 2020, tagliando così l’emissione di 407 milioni di tonnellate di CO2 (pari alle emissioni di un anno della Francia), ha fallito nella sua missione. Nulla di fatto. Nemmeno il tentativo di sostenere il fondo attraverso l’eliminazione del debito contratto (l’Italia annunciò un taglio di 35 milioni di euro) con il meccanismo del debt-swap funzionò, mettendo una pietra tombale sulla proposta e aprendo la strada alle ruspe.

Ma il sottobosco degli ecologisti e delle comunità indigene non si è fermato e per anni ha raccolto firme per il referendum su Yasunì, arrivando così alla vittoria di ieri. Un segnale che un lavoro politico onesto e pervasivo può avere impatti culturali impressionanti.

Questa volta, con la strada del referendum popolare, gli ecuadoregni danno un chiaro mandato al prossimo capo di stato che si insedierà a Quito il 15 ottobre, dopo il ballottaggio tra la correista Luisa González, candidata di sinistra del partito Movimiento revolución ciudadana, e l'imprenditore Daniel Noboa Azin, magnate della coltivazione delle banane. Uno stop all’estrattivismo netto e chiaro, ribadito anche dal referendum locale a Quito dove si è votato per bloccare una maxi miniera d’oro nel Chocó Andino, un’area a elevata biodiversità nell’altopiano vicino alla capitale (il 68% della cittadinanza si è detta a favore).

Qualora vincesse Noboa, conservatore e pro-sviluppo, sarà garantita la chiara volontà popolare di favorire il capitale naturale contro quello fossile? È la domanda che tanti si pongono e su cui anche la comunità internazionale dovrà indirizzare il massimo interesse, tenendo i riflettori puntati sulla regione amazzonica. Attuare la volontà popolare non sarà semplice, e Big Oil guarda con preoccupazione a questo voto.

Dal referendum in Ecuador alla COP30 in Brasile tutta incentrata sul tema amazzonico, nel mondo latinoamericano si prospetta un biennio di grande lavoro, sperimentazione e lotta per mettere a terra politiche di sviluppo economico innovative, che vadano oltre il puro estrattivismo ma sappiano trarre valore e benessere dal proprio capitale naturale, fatto di piante, di servizi naturali, di biodiversità, che si rivelerà essere fonte di nuove scoperte mediche, di tutela dei saperi tradizionali, di nuove forme di agricoltura forestale integrata, di ecoturismo.

Un contributo importante dovrà arrivare anche dalle nazioni più industrializzate. I beni comuni globali, come la foresta Amazzonica, devono diventare una nuova classe di asset economici alla cui tutela e salvaguardia tutti concorrono. Il vecchio progetto di Acosta ancora oggi è estremamente valido e rivoluzionario: risorse per preservare il capitale naturale e limitare l’estrattivismo di fonti fossili. Non si può chiedere ai paesi meno industrializzati di fermare a proprie spese lo sfruttamento dei biomi più preziosi, specie per bloccare l’uso di petrolio e gas, per la comune sfida del clima e della crisi della biodiversità. Tutti devono concorrere allo sforzo.

Il sostegno a queste iniziative di tutela passa per nuovi meccanismi per movimentare risorse economiche che vanno dal debt-swap per i Paesi meno ricchi fino a nuove tasse sull’intensità dei materiali nei prodotti (cercando anche di detassare il costo del lavoro).

Nel mondo latinoamericano il dibattito è acceso, dopo la proposta di Lula di un nuovo accordo sull’Amazzonia (deludente), dopo il risultato del referendum in Ecuador, dopo le riforme contro la deforestazione del socialista Gustavo Petro (con una riduzione della deforestazione del 29,1%). Un dibattito che l’Europa deve seguire con attenzione e su cui, visti intenti e opportunità comuni, deve lavorare attraverso la sua diplomazia climatica.

La questione della finanza green e il ruolo dell’iniziativa legislativa (dal referendum in questione all’iniziativa legale dei giovani del Montana) sono i due macrotemi chiave per invertire la crisi ambientale in questa decade. Il voto in Ecuador ci ha mostrato una via di speranza. Lavorare per preservarla e renderla concreta deve essere l’obiettivo delle nostre società civile e classe dirigente.

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