Si è concluso ieri a Belém, Brasile, il summit dell’Amazon Cooperation Treaty Organization (ACTO) per lo sviluppo sostenibile della foresta Amazzonica. L’ambizione dell’incontro era altissima: siglare un trattato per tutelare la foresta amazzonica e fermare la deforestazione, sostenere lo sviluppo delle popolazioni locali e indigene, ripensare il modello economico della regione e realizzare un raggruppamento tecnico-scientifico degli stati amazzonici.
Il risultato però non è stato all’altezza delle aspettative, fallendo nell’obiettivo comune di fermare la deforestazione completamente entro il 2030 e di implementare una moratoria a lungo termine sull’estrazione di petrolio e gas.
Fortemente voluto dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, il summit ha visto la partecipazione di Colombia, Perù, Venezuela, Bolivia, Guyana, Suriname, Ecuador e Guyana francese. Nella sessione di apertura del vertice Lula ha ribadito che "la storia della difesa dell'Amazzonia, delle foreste, della transizione ecologica, avrà due momenti: prima e dopo questo summit. Perché questo incontro è la cosa più rilevante mai fatta in difesa della questione climatica. Ci stiamo preparando affinché tutti i paesi si uniscano in una posizione comune durante la COP28 e cambino verso ai negoziati”.
Deforestazione e finanziamenti
Per il momento la storia rimane però inalterata, e la scossa sul clima non è arrivata nemmeno a Belém. Numerosi stati, come Bolivia e Venezuela, si sono opposti all’obiettivo 2030 per fermare la deforestazione, mentre la Colombia di Petro non è riuscita a imporre la propria richiesta di fermare l’estrazione di combustibili fossili. Elementi sufficienti per classificare la risoluzione sull’Amazzonia, rinominata Belém Declaration, come un fallimento.
Il Brasile ha cercato di salvare la faccia sottolineando i risultati più significativi del documento approvato, ribadendo l’intesa tra paesi per proteggere l’area e le richieste finanziarie, focalizzate principalmente su chiedere più soldi al mondo industrializzato e sullo stop a “iniziative protezionistiche” come il regolamento europeo per il bando all’importazione di prodotti e materiali da aree deforestate.
“La cooperazione internazionale è il canale più efficace per sostenere il nostro impegno per ridurre le cause della deforestazione e del degrado forestale”, si legge nella dichiarazione finale. “Condanniamo […] le misure unilaterali che costituiscono un mezzo di discriminazione arbitraria o ingiustificabile o una restrizione dissimulata al commercio internazionale.” Una stoccata diretta all’Unione Europea, assente al vertice (Macron avrebbe dovuto essere presente in rappresentanza della Guyana Francese) per il regolamento entrato in vigore il 29 giugno.
"Non è che il Brasile abbia bisogno di soldi. Non è che la Colombia o il Venezuela abbiano bisogno di soldi. È Madre Natura che ha bisogno di soldi, ha bisogno di finanziamenti, perché lo sviluppo industriale l'ha distrutta negli ultimi 200 anni", ha detto Lula in conferenza stampa. Ma difficilmente riuscirà a convincere i Paesi donatori ad aumentare le risorse per la tutela dell’Amazonia senza un accordo chiaro sullo stop alla deforestazione entro la fine del decennio.
Il nodo delle esplorazioni di petrolio e gas
Uno dei punti che ha generato contrasti e indebolito il risultato finale del summit è stata l’ambiziosa richiesta del presidente della Colombia, Gustavo Petro, di una moratoria sulle esplorazioni di petrolio e gas in Amazzonia. Proposta respinta senza appello dal Venezuela (primo paese al mondo per riserve petrolifere con oltre 300 miliardi di barili) e dallo stesso Brasile, che controlla il 60% della foresta pluviale e detiene riserve per 11 miliardi di barili, e che non sembra intenzionato a fermare lo sfruttamento delle sue riserve offshore. Petro inoltre ha sollecitato un ripensamento radicale dell'economia globale, chiedendo una strategia in stile "Piano Marshall" in cui il debito dei Paesi in via di sviluppo venga cancellato in cambio di azioni per proteggere il clima.
A uscire sconfitto dal summit di Belém è lo stesso Lula che, nonostante l’accoglienza da star alla COP27 sul clima in Egitto e la promessa di rafforzamento delle agenzie ambientali brasiliane, non ha ancora assunto il ruolo da leader ecologista che movimenti e governi si aspettano da lui. Ora dovrà mostrare concretamente sul terreno la sua capacità di ridurre la deforestazione in Brasile e mostrare al mondo, grazie anche al supporto della sua abile ministra dell’Ambiente, Marina Silva, come realizzare uno sviluppo sostenibile e circolare dell’economia dell’area amazzonica, con o senza il supporto della finanza climatica internazionale.