Corrado Clini è stato ai vertici del Ministero dell’ambiente − anche come ministro, con Mario Monti − dal 1991 al 2014. Poi ha avuto complicate vicissitudini giudiziarie con accuse di corruzione, da cui si è sempre dichiarato estraneo, che hanno visto un’assoluzione in appello. Oggi lavora tra l’Italia e la Cina, dove è visiting professor alla School of Environment della Tsinghua University, uno degli atenei più importanti e prestigiosi e una posizione che gli permette di lavorare a stretto contatto con il governo e le aziende cinesi. Insieme al Nobel Giorgio Parisi è stato nominato distinguished scientist dall’Accademia cinese delle scienze, e in Cina ha avviato numerose attività e collaborazioni.

Per la sua storia e per le sue competenze è la persona giusta con cui ragionare delle possibilità dell’industria della green economy in Europa, che deve fare i conti con una concorrenza super agguerrita cinese. Che secondo gli anti Green Deal saremmo stati noi europei ad alimentare, addirittura.

 

Comincerei così: i pannelli fotovoltaici sono andati, gli inverter sono andati, le batterie sono andate, le auto elettriche ragionevolmente sono andate anche loro. Che cosa ci rimane? Su cosa possiamo sperare di avere chances di sviluppo come europei?

Proprio a Tsinghua abbiamo costituito nel 2006 la Environment School, e costruito fisicamente l’edificio dove è collocata, il Sino-Italian Eco-Efficient Building, allora come oggi considerato un modello di ecoefficienza. Le racconto questo perché è dal 2000 che porto avanti un lungo lavoro in Cina per creare un vero scambio di competenze: non per regalare tecnologie, ma per costruire insieme il passo successivo. Abbiamo lavorato sull’edilizia sostenibile, costruendo la sede del Ministero dell’ambiente cinese e collaborando con l’Università Tongji di Shanghai. Nel fotovoltaico, abbiamo promosso una joint venture tra ENI e il China Photovoltaic Center, che ha portato alla creazione di una fabbrica a Ningbo, uno dei principali poli industriali cinesi.

E poi? Che è successo?

Purtroppo, dopo tre anni, ENI ha deciso di uscire dalla joint venture, sostenendo che quella cooperazione non fosse strategica e non avesse grandi prospettive di sviluppo. Non faccio commenti. Una cosa simile è accaduta con FIAT. Pechino, in vista delle Olimpiadi del 2008, stava cercando di rendere più sostenibili i servizi urbani. Si era aperta un’opportunità importante per l’Italia, e FIAT-IVECO aveva conquistato il ruolo di fornitore principale della città, con una fornitura di circa 10.000 autobus. Sulla scia di questo successo, avevamo costruito un piano per il rilancio di FIAT in Cina, con un accordo per produrre la 500 elettrica in una nuova fabbrica FIAT in Cina, e il governo cinese che si impegnava a coprire il costo aggiuntivo rispetto alla versione base. Ma ben presto Sergio Marchionne mi manifestò i suoi dubbi, e nel 2012 il progetto saltò.

Tristi storie…

Ecco, se guardiamo indietro, nei primi anni 2000 l’Italia aveva conquistato un ruolo di primato nei rapporti con la Cina su rinnovabili e automotive. Ma troppe occasioni sono state perse per scelte strategiche miopi. Dopodiché io ho smesso di fare il ministro, mi hanno perseguitato per un po' e poi per fortuna dopo anni sono uscito indenne da un lungo percorso. Ma questo filo di collaborazione non c’è più.

E adesso, come ci considerano i cinesi?

La Cina riconosce la nostra eccellenza nella ricerca di base: produciamo molti brevetti, siamo forti nell’innovazione. Ma fatichiamo a trasformare le idee in sviluppo concreto, soprattutto perché in Italia mancano investimenti ad alto rischio. Sostanzialmente uno che ha un'idea geniale in Italia fa fatica a trovare i soldi per poterla sviluppare. Qui entra in gioco la Cina, che potrebbe diventare la partner strategica per colmare questo gap. Abbiamo ripreso a lavorare su questi temi lo scorso luglio, quando la presidente del Consiglio Meloni ha firmato un ampio accordo di collaborazione con il governo cinese. Da lì è partita un’iniziativa per individuare le aree critiche nello sviluppo delle tecnologie innovative su cui Italia e Cina possono collaborare.

Comunque, per l’Italia e per l’Europa, si sono perdute tante occasioni. Possiamo dire che la frittata è ormai stata fatta?

Un errore fondamentale del Green Deal, a mio avviso, è stato il non capire – o il non voler vedere – che la Cina stava evolvendo da semplice “manifattura del mondo” a potenza tecnologica in grado di innovare. Qualcuno, e mi permetto di rivendicarlo, l’aveva capito; i più no. Ciò che è accaduto nel fotovoltaico e nell’auto elettrica non è frutto di un successo improvviso, ma il risultato di una pianificazione strategica avviata dai cinesi 15-20 anni fa. L’Europa, invece, se n’è accorta troppo tardi, e si è fatta anche condizionare dai pregiudizi. Il risultato? Oggi importiamo il 98% dei minerali critici e delle terre rare per le rinnovabili e le auto elettriche proprio dalla Cina. Ora la vera domanda è: ci vogliamo limitare a rincorrere i cinesi, cercando di produrre pannelli solari in Europa a costi tripli con materiali sempre importati da loro, oppure vogliamo investire in ricerca per fare un vero salto di qualità tecnologico?

Era la mia domanda iniziale!

A leggere alcune considerazioni contenute nel rapporto Draghi, e altre espresse da von der Leyen, sembra che ci sia più attenzione, più comprensione di questo punto. Ma bisogna prima risolvere un nodo politico: i rapporti fra Europa e Cina non possono svilupparsi in un contesto, come quello attuale, di sostanziale ipocrisia. Faccio l’esempio del cosiddetto Comprehensive Investment Agreement, che l’Europa ha negoziato per sette anni e alla fine è stato approvato dalla Cina, con grande difficoltà perché dentro c'erano tutte le norme internazionali stabilite dall'Organizzazione internazionale del lavoro. Poi il Parlamento europeo l'ha bloccato, perché la Cina non è un paese democratico. Insomma, è stato fermato un accordo virtuoso negoziato per sette anni perché la Cina “non è democratica”, e allo stesso tempo continuiamo a importare, fare affari e stringere joint venture con aziende cinesi. Questa è un'ipocrisia che va risolta, e l'accordo firmato dalla presidente Meloni in qualche modo ha risolto almeno dal punto di vista italiano questo aspetto. Ma non basta.

In quali settori possiamo confrontarci con le aziende cinesi, che hanno raggiunto dimensioni di scala immense?

Dobbiamo favorire cooperazioni industriali trasparenti tra Europa e Cina per affrontare alcuni nodi della transizione energetica che sono tutt’altro che sciolti. Pensare che in Europa le rinnovabili da sole risolvano tutto è un’illusione: basta una siccità prolungata, com’è stato due anni fa, o una riduzione del vento nel Mare del Nord, e il contributo di queste fonti diventa molto più precario. Bisogna trovare il modo di rendere stabile il contributo di fonti non fossili, e quindi naturalmente servono tecnologie di accumulo e reti elettriche avanzate, come quelle ad altissimo voltaggio in corrente continua, per trasportare energia rinnovabile dai luoghi di produzione − magari nel Sahara − ai grandi centri di consumo. L’Europa ha un grande potenziale di sviluppo in quest’area, soprattutto perché le principali imprese che lavorano su queste tecnologie sono europee, ma spesso operano in Cina e in India, molto meno in Europa. Terna, con il suo progetto Tyrrhenian Link, sta iniziando a utilizzare queste tecnologie, ma il campo è vasto. Dobbiamo immaginare una sorta di “Internet dell’energia”, che consenta di trasportare energia dalle aree dove viene prodotta in abbondanza, anche se remote, a quelle con alta domanda. È un’opportunità che si lega anche al settore dell’auto elettrica: non basta aumentare l’autonomia delle auto, ma bisogna sviluppare una filiera che consenta di sostituire il pack di batterie in corsa, come se fosse una normale sosta al distributore, per rendere più pratico l’uso delle auto elettriche.

Quindi non attraverso ricariche veloci…

Anche, ma può essere utile ridurre il carico sulla rete elettrica attraverso la sostituzione dei pack di batterie, che sono accumuli. Sta crescendo la domanda di elettricità legata al parco auto elettrico, una domanda che potrebbe non essere facilmente soddisfatta dalla rete elettrica che c’è. È un tema complesso su cui le imprese e gli istituti di ricerca europei possono lavorare, anche in collaborazione con i cinesi. Io stesso sono stato recentemente a Shanghai, dove hanno creato una nuova università chiamata Shanghai Tech, in cui stanno nascendo tantissimi laboratori in collaborazione con aziende europee e anche americane. Le imprese europee stanno iniziando questa collaborazione, ma bisogna trovare un equilibrio che permetta di distribuire il valore aggiunto di tali innovazioni anche in Europa. Questo è un problema più politico che tecnologico.

Dunque, possiamo farcela.

C’è moltissimo da fare. Penso agli obiettivi che l’Europa si è data per il settore dell’edilizia, che ha suscitato molte discussioni specialmente per i costi. Ma dietro a queste iniziative ci sono tecnologie che vanno ben oltre ciò che abbiamo visto finora. Si sta sviluppando la tecnologia dei digital twin, i gemelli digitali, una nuova modalità di progettazione e gestione nell’edilizia ancora agli inizi ma con potenzialità enormi. L’Europa sta investendo in modo significativo in queste aree, ma è fondamentale che non si facciano investimenti a pioggia solo per stare al passo con la Cina.

Da poco la Commissione europea ha varato l’Industrial Act e molte altre norme su un po’ tutti i temi dell’economia green. Che ne pensa?

Non diventeremo competitivi pensando di occuparci di tutto. Per esempio, sulle terre rare cosa facciamo? Apriamo miniere in tutta Europa?

Beh, se possiamo collocare delle centrali nucleari, possiamo ben aprire delle miniere, no?

In Europa è sicuramente più facile costruire una centrale nucleare che aprire una miniera ex novo. In questo campo la strada è quella del riciclo, realizzabile e vero motore di sviluppo tecnologico. La Cina, che per ora non ha bisogno di riciclare, ha iniziato a investire sulle tecnologie per il recupero, creando una filiera parallela che finisce nella raffinazione. È un settore in cui possiamo davvero fare la differenza, così come nel campo delle reti elettriche. A differenza di Stati Uniti, Cina e India, l’Europa ha un’alta densità di popolazione, il che comporta un consumo di elettricità molto più articolato. Qui sta l’opportunità: combinare il trasporto di elettricità con le smart grid, e conquistare un mercato in cui gli Stati Uniti e la Cina sono indietro. Stresserei invece un po’ meno la decarbonizzazione…

In che senso?

Lo sforzo di decarbonizzazione dell’Europa contribuirà solo marginalmente alla riduzione globale delle emissioni: oggi rappresenta solo il 6% delle emissioni mondiali e, con gli obiettivi del Green Deal, potremmo arrivare a un 1,5% di riduzione globale. Su questo tema la vera sfida è altrove, e riguarda principalmente Cina, India e Stati Uniti. C’è, piuttosto, in Europa un enorme problema di protezione del territorio. Stiamo vivendo una crescente intensità e frequenza di eventi climatici estremi che mettono a dura prova infrastrutture, servizi e agricoltura. Solo l’anno scorso, i danni sono costati circa 55 miliardi di euro all’Europa, con l’Italia che ha sostenuto una spesa di circa 250 euro a persona per fronteggiare questi disastri, secondo uno studio TEHA Ambrosetti. La difesa del territorio, la protezione delle coste, la deimpermeabilizzazione delle aree urbane, la manutenzione dei sistemi fluviali e la modernizzazione delle idrovore che raccolgono le acque sotto il livello del mare sono tutti interventi urgenti che richiedono enormi investimenti e capacità ingegneristiche avanzate. Il MOSE, con tutte le sue criticità, rappresenta un esempio di come l’Europa può diventare leader mondiale nella protezione del territorio. Paesi come la Cina, gli Stati Uniti, l’Indonesia e l’India, che stanno vivendo un aumento degli eventi climatici estremi, hanno sempre più bisogno di soluzioni come queste. L’Europa ha il know-how e le capacità ingegneristiche per affrontare sfide simili a livello globale. Insomma: invece di disperdere risorse su mille iniziative, sarebbe più efficace concentrare le risorse comuni su priorità che non solo rispondano alle esigenze interne, ma rafforzino anche la competitività europea a livello internazionale.

E invece, secondo lei, perdiamo energie e tempo su questioni marginali. Ci può fare un esempio?

Più che questioni marginali, questioni con soluzioni già adottate altrove, che non ha senso andare a inseguire. C’è il caso della fabbrica di pannelli fotovoltaici di Enel, a Catania, di cui si parla molto e con grandi elogi. Produce pannelli ottimi, ma che purtroppo costano molto di più di quelli − peraltro più performanti − prodotti in Cina. Forse sarebbe più sensato che i cinesi investissero direttamente in Europa, piuttosto che cercare noi di replicare un prodotto che loro stessi hanno già perfezionato. È una questione delicata, e spesso si rischia di essere accusati di voler fare gli agenti della Cina, ma i numeri parlano chiaro: l’Europa deve fare scelte più strategiche e realistiche.

Un discorso che vale anche per le batterie e i sistemi di accumulo?

Sulle batterie c’è un grande potenziale di sviluppo, soprattutto dal punto di vista dei materiali. L’accordo per l’Alleanza europea per le batterie purtroppo non ha portato i risultati sperati, perché ancora una volta mancava un forte impegno sulla ricerca di nuovi materiali e nuove tecnologie. Quando si cerca di fare qualcosa basandosi su brevetti già consolidati, è chiaro che i progressi saranno limitati.

 

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In copertina: Corrado Clini