“La storia mineraria non è priva di difetti, soprattutto nei confronti dei Paesi in via di sviluppo che detengono buona parte delle materie prime critiche essenziali per la transizione”. Con queste parole l’ambasciatrice sudafricana Nozipho Mxakato-Diseko ha presentato l’11 settembre il report Resourcing the Energy Transition: principles to guide critical energy transition minerals towards equity and justice, un manuale di principi e linee guida che sollecita i governi e le industrie a prevenire ogni violazione dei diritti umani, garantire ai Paesi estrattori un'equa distribuzione dei profitti, e promuovere pratiche a limitato impatto ambientale.

I minerali critici – tra cui litio, nichel e terre rare – sono essenziali per la transizione energetica e l’elettrificazione di numerosi comparti, tra cui l’automotive. Al vertice delle Nazioni Unite sul clima COP28 i governi si sono posti l’obiettivo di triplicare la capacità di energia rinnovabile entro il 2030, un target che triplicherà anche la domanda di minerali entro la fine del decennio.
Per implementare una rapida decarbonizzazione che ci consentirebbe di raggiungere la neutralità climatica entro metà secolo, nel 2040 sarebbe necessaria una quantità di minerali critici 6 volte superiore a quella attuale.

Tuttavia questa fame estrattivista presenta già un significativo costo sociale e ambientale, in particolare per le comunità indigene. Secondo uno studio pubblicato nel 2022 su Nature Sustainability, su oltre 5.000 progetti minerari esaminati, oltre la metà occupavano terre indigene oppure erano situati nei pressi di comunità.
Dai dati dell'organizzazione no-profit Business & Human Rights Resource Centre emerge come il 39% delle compagnie minerarie siano state accusate almeno una volta di compiere abusi legati ai diritti umani, registrando un totale di 630 denunce tra il 2010 e il 2022.

I principi per un estrattivismo sostenibile

Non è un caso che al cuore del manuale ci siano proprio i diritti umani, la cui protezione deve diventare principio cardine di qualsiasi catena del valore. Il gruppo delle Nazioni Unite raccomanda anche la salvaguardia dell'integrità del pianeta, il suo ambiente e della biodiversità; una condivisione equa dei profitti con le comunità locali; pratiche di investimento responsabile; trasparenza nella governance e la promozione di una cooperazione internazionale.

Per far rispettare questi 7 principi, il report consiglia l’istituzione di un gruppo consultivo di alto livello per facilitare il dialogo sulla questione e un sistema di trasparenza che faccia luce sulla supply chain mineraria e che potrebbe essere sperimentato in due o tre Paesi in via di sviluppo.
“Raccomandiamo anche la creazione di un Global Mining Legacy Fund, un fondo che supporterebbe la riqualificazione delle miniere abbandonate e la gestione sostenibile delle chiusure – ha dichiarato Ditte Juul Jørgens, direttrice generale per l’energia della Commissione europea Poi, guardando al futuro, suggeriamo la definizione di obiettivi e di uno schema per la circolarità. È necessario utilizzare meglio i materiali che abbiamo a disposizione, minimizzando gli impatti negativi sull'ambiente ”.
Al lancio del report è intervenuta anche Suneeta Kaimal, CEO del Natural Resource Governance Institute (NRGI) dichiarando che l’industria mineraria e il sistema internazionale hanno fallito nel garantire giustizia ed equità alle nazioni in via di sviluppo, “ma queste linee guida potrebbe fungere da primo passo per un nuovo paradigma”.

La reazione dell’industria mineraria

L’International Council on Mining and Metals (ICMM), il consorzio che rappresenta l’industria mineraria a livello globale, ha pubblicato un comunicato accogliendo con favore il report. L’ICMM avrebbe però sperato che fosse dedicata maggiore attenzione alla promozione di pratiche responsabili nell'attività mineraria artigianale e un approccio “tolleranza zero” nei confronti di quella illegale.
L'ICMM adotta e promuove da anni standard di responsabilità estrattiva, come la Consolidated Mining Standard Initiative, che vengono supervisionati da organismi esterni all’ONU. Un aspetto piuttosto criticato dalla società civile che etichetta come greenwashing questa pratica di auto regolamentazione industriale.
In un'intervista rilasciata a Climate Home News, Suneeta Kaimal ha osservato che il documento manca di ambizione in alcuni passaggi: per esempio nel riconoscere i diritti indigeni, vengono citati solo accordi esistenti; oppure non vengono forniti i dettagli di ciò che dovrebbe essere una "giusta condivisione" dei benefici.
Del report si riparlerà a novembre alla COP29 di Baku, in Azerbaigian, e per l’occasione verranno consultate anche le delegazioni dei governi.


Immagine: Dominik Vanyi (Unsplash)