Questo è il secondo articolo della serie in tre puntate Bioplastic: green innovation or another plastic problem? un’inchiesta internazionale pubblicata da Materia Rinnovabile ‒ insieme a Eu Observer, LRT Televisione Nazionale Lituana e Taz ‒ grazie al supporto del Journalismfund Europe.
La puntata precedente è disponibile a questo link. La successiva sarà pubblicata nelle prossime settimane.
Fu Lidl Italia la prima catena di supermercati a mettere al bando le stoviglie in plastica usa e getta. Era l’estate del 2019 e da quel momento in poi piatti, posate e cannucce realizzati in plastica biodegradabile e compostabile avrebbero iniziato a riempire gli scaffali dei supermercati italiani. L’industria del packaging cercava un’alternativa più sostenibile alla plastica tradizionale e le stoviglie in bioplastica monouso sembravano avere il profilo ideale. Trainate dalla domanda di consumatori e amministrazioni comunali, stavano attraversando un boom di vendite che poi sarebbe esploso anche nella GDO, la grande distribuzione organizzata.
Il 5 giugno 2019, giorno in cui Assobioplastiche (l’Associazione Italiana delle bioplastiche) presentava i dati di un settore in netta crescita (+26% di fatturato nell’anno precedente), la Commissione europea approvava la Single Use Plastic directive (SUP), la direttiva deputata a vietare il commercio di quei prodotti in plastica monouso la cui dispersione è considerata una seria minaccia per gli ecosistemi marini. Nell’elenco degli oggetti da bandire cotton fioc, piatti, posate, cannucce e altri articoli che complessivamente rappresentano circa il 50% dei rifiuti trovati sulle spiagge europee.
Per Assobioplastiche fu un duro colpo scoprire che anche le stoviglie biodegradabili e compostabili, al pari delle plastiche tradizionali, sarebbero rientrate nel divieto. Il motivo, come specifica la Commissione europea in una nota, è che non esistono ancora garanzie sufficienti sulla loro biodegradabilità in ambiente marino, ovvero non è certo che le bioplastiche si decompongano nell’acqua in breve tempo senza causare danni all'ambiente. Il ban è quindi rivolto a ogni tipo di polimero ed è pensato per prevenire l'inquinante fenomeno del littering, termine inglese che indica l’abbandono di rifiuti di piccole dimensioni in spazi pubblici.
Nonostante le raccomandazioni di Bruxelles, nel 2021 il Governo italiano dell’allora primo ministro Mario Draghi adottò la SUP con una deroga sulle bioplastiche. Un’esenzione ad hoc pensata per proteggere gli interessi dell’industria, ma non la salvaguardia dell’ambiente.
La biodegradabilità fuorviante delle stoviglie in bioplastica
Quando leggiamo la scritta “biodegradabile” su un prodotto o un imballaggio non significa che siamo liberi di disperderlo in ambiente sperando che si “dissolva magicamente”. Uno studio pubblicato a maggio 2023 dal centro di ricerca UC San Diego, Scripps Institution of Oceanography ha testato la biodegradabilità in natura di un campione di tessuto di PLA, uno dei biopolimeri più utilizzati per realizzare prodotti e packaging monouso. Dopo circa 428 giorni in mare, il PLA è stato trovato ancora intatto, proprio come i polimeri polipropilene e PET. "Questo studio dimostra la necessità di standardizzare i test per capire se i materiali promossi come compostabili o biodegradabili si degradino effettivamente in un ambiente naturale", aveva dichiarato la co-autrice della ricerca Sarah-Jeanne Royer.
L’Unione Europea raccomanda di non utilizzare mai come claim (slogan pubblicitario) “biodegradabile” per prodotti o imballaggi a rischio dispersione. Eppure in Italia numerosi brand promuovono liberamente piatti, cannucce e posate come “biodegradabili”, senza indicare le condizioni, il luogo e il lasso di tempo in cui la biodegradazione dovrebbe avvenire. Come ricorda la Commissione europea, questo tipo di comunicazione potrebbe confondere i consumatori o, peggio, incoraggiarli a smaltire questi rifiuti nell’ambiente.
Non è infatti sempre facile comprendere il vero significato delle etichette ambientali. Lo dimostra per esempio un recente sondaggio dell’Advertising Standards Authority ‒ l’ente che regola le pubblicità nel Regno Unito ‒ che rivela come le persone intervistate siano solite confondere i termini “compostabile” e “biodegradabile”. “C’è una forte convinzione che la parola ‘biodegradabile’ non sia chiara, altri sostengono che non debba essere usata affatto”, si legge nel report.
“L'industria delle bioplastiche italiana non ha mai parlato di biodegradabilità, ma solamente di compostabilità”, risponde a Materia Rinnovabile Marco Versari, presidente di Biorepack, il consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica compostabile. Per compostabilità si fa riferimento alla capacità di un materiale organico di essere trasformato in compost, una sostanza organica spesso riutilizzata come fertilizzante. Questo processo avviene solo in appositi impianti di compostaggio e in condizioni controllate. “Il motivo per cui in Italia si commerciano bioplastiche è perché da anni possiamo contare su un’ottima raccolta dell’umido”, aggiunge Versari.
In effetti l'Italia vanta eccellenti risultati nel riciclo dei rifiuti organici, tuttavia, nonostante la raccolta differenziata dell’umido sia obbligatoria a livello nazionale dal 1° gennaio 2022, al Sud solo poco più del 50% degli abitanti può usufruire della raccolta di rifiuti organici. E nelle isole i numeri calano addirittura al 30%.
Nel 2022 il tasso di riciclo degli imballaggi (stoviglie incluse) in bioplastica ha raggiunto il 60,7% dell’immesso al consumo. Ma dove finisce il restante 40% di imballaggi compostabili che non si ricicla? Due ipotesi plausibili sono lo smaltimento in discarica e l’incenerimento. Se dispersi in ambiente, invece, gli imballaggi e prodotti in bioplastica ‒ proprio come la plastica tradizionale ‒ contribuiscono all'inquinamento da littering. Proprio ciò che Bruxelles vorrebbe evitare attraverso la direttiva SUP.
L’Italia a rischio procedura d’infrazione
Nel disubbidire alla direttiva europea sulla plastica monouso, il Governo italiano stabilisce dei requisiti per l’utilizzo delle bioplastiche. Per esempio, prodotti come le stoviglie compostabili sono ammessi solo dove non sia possibile optare per alternative riutilizzabili, condizione che lascia spazio ad ampia interpretazione a seconda dei luoghi di consumo. Oppure quando l'impatto ambientale del prodotto riutilizzabile sia superiore alle alternative compostabili monouso, uno dei temi che ha animato il dibattitto sul Regolamento imballaggi. Infine, ne giustifica l’utilizzo quando è previsto un sistema di raccolta efficace, a “circuito controllato”, come mense e servizi di catering. Un sistema che al momento non è garantito in numerosi Comuni del Sud Italia.
Una portavoce della Commissione europea spiega a Materia Rinnovabile che per ora l’esecutivo si è limitato a richiamare quei 9 Stati membri che non hanno ancora adottato la direttiva: Belgio, Croazia, Estonia, Irlanda, Lettonia, Polonia, Portogallo, Slovenia e Finlandia. Solo in un secondo momento verrà valutata la corretta trasposizione degli altri Stati. In caso di recepimento tardivo o scorretto (come nel caso dell’Italia), i Paesi possono essere sanzionati tramite una procedura d’infrazione. Tra il 2012 e il 2021 Roma ha dovuto sborsare oltre 800 milioni di euro per non aver adeguato il proprio ordinamento al diritto europeo. E la maggior parte delle infrazioni ha riguardato il settore ambientale.
Tra investimenti nella ricerca e divieti: il caos di Bruxelles
L’industria italiana delle bioplastiche vede negli articoli monouso compostabili un’ottima opportunità per foraggiare i 356 impianti di riciclo organico del Paese. Dopo la straordinaria diffusione degli shopper compostabili, utili a raccogliere l’umido, il settore ha scommesso e investito su altri prodotti. Anche grazie a fondi di ricerca europei. “Negli anni l'Unione Europea ha sostenuto con quasi un miliardo di euro diversi progetti di ricerca proprio per favorire lo sviluppo di questa industria. Per tale motivo mi sarei aspettato una maggiore attenzione da parte di Bruxelles”, commenta rammaricato Versari.
Non è un caso che il 12 dicembre 2023, alla conferenza annuale della European Bioplastic Association a Berlino, Silvia Maltagliati del dipartimento Ricerca e Sviluppo della Commissione europea sia stata sommersa di domande come: “Quando possiamo aspettarci leggi più favorevoli dopo tutti gli studi finanziati negli ultimi anni?”. In effetti, legislazione e fondi destinati alla ricerca sembrano viaggiare su binari diversi.
Proprio nell’anno in cui i divieti della Single Use Plastic entrano in vigore (2021), nasce la Circular Bio-based Europe Joint Undertaking (CBE JU), una partnership da 3,7 miliardi di euro tra l’Unione Europea e il consorzio delle industrie bio-based (BIC). L’iniziativa si pone l’obiettivo di sviluppare prodotti e materiali bio-based, cioè derivati da materia prima rinnovabile o da scarti agricoli.
Supportati dal programma Horizon 2020, alcuni dei 22 progetti di ricerca dedicati al packaging riguardano proprio bioplastiche usa e getta. Per esempio, quasi 5 milioni di euro sono stati stanziati per HICCUPS, un’iniziativa che mira a produrre un biopolimero catturando le emissioni di anidride carbonica dagli impianti di trattamento delle acque reflue. Tra le possibili applicazioni ci sono bicchieri, imballaggi per cibo da asporto e piatti e posate. Un altro progetto, di nome PEFeference, sta cercando ormai dal 2017 di replicare le caratteristiche del PET ‒ usato per le bottiglie ‒ con una bioplastica derivata da canna da zucchero. Fino a ora il progetto è costato quasi 25 milioni di euro.
Insomma, da una parte Bruxelles tenta di limitare la cultura dell’usa e getta vietando alcuni prodotti e promuovendo il riuso. Dall’altra però investe milioni di euro in ricerca e innovazione nel settore dell’usa e getta che l’industria poi, causa divieti o regolamenti, come quello sugli imballaggi, non può sfruttare pienamente.
I piatti “riutilizzabili” che sfuggono alla SUP
Mentre in Italia l’effetto SUP ha accelerato la diffusione delle bioplastiche, in altri Paesi europei proliferano piatti in carta, posate in legno e bambù, tutto sempre allineato con la filosofia poco circolare dell’usa e getta. In Belgio, Francia e Spagna sono stati avvistati piatti realizzati in una plastica leggermente più spessa che vengono venduti come riutilizzabili e lavabili. Si tratta di un escamotage tecnico, denunciato anche in Italia, per aggirare la norma e offrire prodotti comunque usa e getta, a un costo più competitivo rispetto ad altri materiali. Per capire fino a che punto questi piatti fossero davvero riutilizzabili, nel 2021 alcuni volontari dell’associazione Rethink Plastic Alliance ne hanno testato la resistenza in lavastoviglie, scoprendo che in realtà dopo pochi lavaggi la plastica ha iniziato a rompersi e contaminarsi col cibo.
Tra espedienti, deroghe nazionali e fuorvianti operazioni al limite del green marketing, oggi l’Unione Europea ha l’arduo compito di rendere la direttiva SUP più coerente e coesa. Almeno fino al 2027, quando verrà ridiscussa anche alla luce di nuovi potenziali standard di biodegradabilità delle bioplastiche. In questo caos i consumatori europei necessitano di maggiore trasparenza e chiarezza sui prodotti che comprano. Soprattutto nel settore del monouso, invaso da claim come “bio”, “eco” e “green”. Lì dove si insidia più facilmente il fenomeno greenwashing.
Hanno collaborato a questa investigazione Daiva Repeckaite e Jelena Malkowski
Questo articolo è disponibile anche in inglese / This article is also available in English
Immagine di copertina: Envato