Questo è il primo articolo della serie in tre puntate Bioplastic: green innovation or another plastic problem? un’inchiesta internazionale pubblicata da Materia Rinnovabile ‒ insieme a Eu Observer, LRT Televisione Nazionale Lituana e Taz ‒ grazie al supporto del Journalismfund Europe. La seconda puntata è disponibile a questo link. La terza puntata sarà pubblicata nelle prossime settimane.
A Bangkok l’obbligo delle mascherine per proteggersi dal Covid non c’è più da tempo, ma ogni giorno le persone quando escono in strada si coprono ugualmente il viso, con un pezzo di stoffa o le più canoniche mascherine chirurgiche. È l'11 dicembre e la capitale tailandese è già ricoperta da una coltre di smog che sta peggiorando drasticamente la qualità dell’aria. Tra tuc-tuc elettrici e nuovi taxi a gas naturale, la cattiva qualità dell’aria non è dovuta come un tempo agli scarichi esausti di improbabili mezzi di trasporto.
Oggi l'inquinamento da polveri sottili è sempre più causato da una pratica agricola ancora piuttosto impiegata nelle piantagioni di riso e canna da zucchero: la combustione dei campi. L’obiettivo è eliminare velocemente le foglie e la materia vegetale in eccesso per facilitare la fase di raccolta.
PLA: il biopolimero dell’usa e getta
A dicembre in Thailandia prende il via la stagione della raccolta della canna da zucchero, una delle materie prime rinnovabili più utilizzate per produrre il biopolimero PLA o acido polilattico. Questo tipo di bioplastica, biodegradabile solo in impianti di compostaggio adeguati, affolla sempre di più gli scaffali dei supermercati italiani sotto forma di prodotti monouso come stoviglie e bicchieri oppure come vaschette per contenere cibo.
Il marketing li rende tutti uguali: packaging tinteggiati di verde con le scritte “eco”, “bio”, “green” e possibilmente con qualche richiamo alla natura per far sentire i consumatori amici del pianeta. La sostituzione della plastica tradizionale con le bioplastiche è spesso brandizzata come la soluzione a tutti i guai ambientali causati dalla plastica fossile: inquinamento degli oceani, microplastiche, emissioni di anidride carbonica e smaltimento.
Una promessa che cavalcando l'entusiasmo dell’innovazione green si dimentica di affrontare il vero elefante (di plastica) nella stanza: il modello usa e getta. Una modalità di consumo che non va fuori moda e che spesso, attraverso soluzioni biobased o biodegradabili, cambia solo look ma non la sostanza del problema.
Gli imballaggi o prodotti in bioplastica monouso non sono fatti solamente in PLA prodotto da canna da zucchero. Possono variare sia il feedstock ‒ dall’amido di mais usato in Nord America, fino a quello europeo da patate e barbabietole ‒ sia le miscele di polimeri compostabili che possono contenere monomeri derivati da fonti fossili. Esistono anche numerosi progetti pilota che puntano sulle cosiddette feedstock di seconda generazione, cioè quelle materie prime alternative che includono colture per uso non alimentare o sottoprodotti agricoli come scarti e residui da lavorazione. Al momento però risulta complesso rendere questo processo circolare economicamente sostenibile.
Tra le numerose bioplastiche in commercio abbiamo scelto di focalizzarci sul PLA perché occupa la fetta di mercato più grossa (31%) e secondo le stime della European Bioplastic Association rappresenterà quasi il 50% della produzione entro il 2028. Il packaging rimane il segmento di applicazione più grande e, secondo diversi produttori, il PLA sembra avere le giuste caratteristiche per soddisfare i requisiti di rigidità e solidità degli imballaggi e dei manufatti usa e getta. Almeno fino a certe temperature.
Lo sa bene TotalEnergies Corbion, uno dei maggiori produttori di PLA al mondo. Nel 2017 la società con sede nei Paesi Bassi ha deciso di stabilire una bioraffineria in Thailandia, Paese ricchissimo di risorse rinnovabili che si proclama secondo produttore al mondo di bioplastiche. Il piano del re Maha Vajiralongkorn è far diventare la sua Thailandia il principale hub della bioeconomia mondiale.
In Thailandia arriva “neve nera” dalle piantagioni
Pirom Rudee possiede 80 ettari di piantagione di canna da zucchero nel distretto di Wang Muang, nella provincia di Saraburi, a 160 km a nord di Bangkok. Come molti altri coltivatori della zona, vende canna da zucchero al gruppo Thai Roong Ruang Sugar Group (TRR), che detiene la maggior parte degli zuccherifici del Paese. Dopo il processo di estrazione, TRR vende lo zucchero al produttore di bioplastiche TotalEnergies Corbion (joint venture della compagnia petrolifera francese TotalEnergies) che ne ricava acido lattico grazie a un processo di fermentazione batterica. Nel sito produttivo di Rayong questo acido viene convertito in un tipo di PLA commercializzato come Luminy, un materiale considerato “sostenibile” dai principi della tassonomia europea. La bioraffineria ha una capacità produttiva di 75.000 tonnellate all’anno.
Come Rudee, numerosi agricoltori tailandesi bruciano i campi per rendere la raccolta di canna da zucchero più veloce e ridurre i costi di manodopera. La combustione emette black carbon, inquinante visibile sotto forma di fuliggine ‒ conosciuta in Thailandia come himadum (neve nera) ‒ e considerata dall’agenzia ambientale governativa una delle cause principali dell’inquinamento atmosferico nel Paese.
Nella provincia di Saraburi la stagione della raccolta è iniziata il 10 dicembre e Rudee ci spiega di aver utilizzato la combustione in alcuni dei suoi campi, ammettendo che è un modo molto più facile e veloce per rimuovere la vegetazione in eccesso. I trattori sarebbero in grado di farlo, ma oltre a essere costosissimi (dai 17.000 ai 300.000 dollari statunitensi) non possono operare su terreni rocciosi.
Il portavoce dell’Associazione dei coltivatori di canna da zucchero di Wang Muang assicura a Materia Rinnovabile che più della metà dei coltivatori riesce a noleggiare i macchinari o utilizzare ancora il lavoro manuale, mentre “solo il 10% ricorre ancora a dannose pratiche di combustione”. Eppure lo scorso anno nella provincia di Saraburi i livelli di polveri sottili hanno superato più volte i limiti consentiti. Dati atmosferici alla mano, i conti non tornano.
Nonostante le politiche ambientali del Governo tailandese promuovano pratiche più sostenibili, a livello nazionale le cose non sono migliorate come ci si aspettava: dai drammatici dati del 2018, quando a livello nazionale il 60% della canna da zucchero raccolta proveniva da ettari bruciati, si è passati al 26% nel 2021. Ma nelle stagioni successive i numeri sono tornati a crescere (32%), malgrado la promessa del Governo di azzerare le pratiche di combustione entro il 2024.
In un business dove la velocità di raccolta è tutto e gli incentivi per cambiare sono quasi inesistenti, i proprietari di piantagioni pensano che sia troppo costoso vendere un prodotto a zero emissioni. Bruciando i campi si può arrivare a raccogliere il triplo delle tonnellate di canna da zucchero in un solo giorno. Inoltre, Pirom Rudee fa notare che la canna da zucchero sostenuta da combustione controllata fornisce materia prima di migliore qualità, con un elevato livello di dolcezza. Il che influirebbe anche sulla quantità di acido lattico prodotto.
La bioplastica di TotalEnergies Corbion odora di fumo
Secondo i dati dell’istituto governativo Office of Cane and Sugar Board (OCSB), durante la stagione 2021/2022 il gruppo TRR ha acquistato 3,86 milioni di tonnellate di canna da zucchero coltivata con l’uso della combustione. Il secondo grosso fornitore di TotalEnergies Corbion è Mitr Phol che nello stesso periodo ne ha comprate dagli agricoltori 5,36 milioni. Entrambi i fornitori dovrebbero aderire al Sugar Cane Code, un codice di condotta pensato da TotalEnergies Corbion per migliorare le pratiche agricole dei fornitori e rendere davvero sostenibile il processo.
Il gruppo TRR utilizza gli incentivi nazionali pagando 120 baht (3,08 euro) in più per tonnellata di canna da zucchero non bruciata, tuttavia non si è posto ancora un obiettivo minimo. Ugrit Asadatorn, presidente del gruppo TRR, si auspica che gli agricoltori smettano di appiccare incendi che causano inquinamento. "Nonostante il calo di produzione previsto quest’anno a causa della siccità, stimo che compreremo ancora circa il 20% della canna dopo pratiche di combustione", ha aggiunto.
“Una filiera agricola sostenibile è essenziale per le comunità in cui operiamo”, risponde TotalEnergies Corbion a una nostra richiesta di commento. Ma il codice, scritto secondo gli standard di sostenibilità definiti dall’organo certificatore Bonsucro, non è vincolante e raccomanda semplicemente di minimizzare gli impatti ambientali.
In questo i coltivatori sono abbandonati a sé stessi. Rudee condivide il fatto che non tutti gli agricoltori dell’associazione hanno aderito al programma di Bonsucro. “Non c’è alcun beneficio. Per aderire riceviamo alcuni fertilizzanti e qualche consiglio, ma non ci pagano di più per evitare di bruciare i campi.” Per capire se i fornitori seguano il codice etico, TotalEnergies Corbion ci consiglia di chiedere direttamente a loro.
Al momento in Thailandia le aree di coltivazione certificate Bonsucro sono poco più del 2% e nel 2022 TotalEnergies Corbion ha acquistato solamente il 21% di zucchero certificato. Numeri che però non sembrano contare molto nel white paper aziendale, che vende il biopolimero Luminy come il prodotto che riduce l’impronta carbonica del 75% rispetto alla plastica tradizionale. La Sustainability Manager Maelenn Ravard ci assicura che “la pratica di combustione è inclusa tra i fattori che possono influenzare la carbon footprint di Luminy”. Ma nel report non c’è traccia degli impatti causati dall'inquinamento delle polveri sottili.
L’eldorado della bioplastica e gli impatti della produzione
La Thailandia iniziò a puntare seriamente sulla produzione di bioplastica nel luglio 2008, quando il Governo approvò un piano nazionale da 50 milioni di dollari con l’obiettivo di costruire uno dei principali hub della bioeconomia. Alla visione di una Bio-Circular Economy thailandese ci crede anche l’Unione Europea, che neve vede un ottimo laboratorio per sperimentare i materiali biobased del futuro.
Non è un caso quindi che due big della bioplastica come TotalEnergies Corbion e NatureWorks abbiano deciso di investire in una terra così ricca di risorse vegetali (anche l’amido di manioca è usato). Oltre al PLA prodotto nelle vaste piantagioni di mais in Nebraska, NatureWorks infatti aprirà una nuova bioraffineria a nord di Bangkok nel 2025. “Sarà un processo innovativo e molto più efficiente”, ci dicono fonti interne.
Oltre alla combustione della canna da zucchero, le principali preoccupazioni ambientali legate allo sviluppo della bioeconomia tailandese riguardano la scarsità di terra e acqua. Colture come la canna da zucchero competono con il riso per terreni agricoli limitati, mentre la scarsità d’acqua preoccupa per la resa dei raccolti: la canna da zucchero necessita di molta acqua e soffre i periodi siccitosi.
Se da un lato è stato provato che la produzione di PLA consumi meno combustibili fossili rispetto ai polimeri convenzionali, dall’altro potrebbe avere impatti ambientali elevati anche per quanto riguarda l’inquinamento dei corpi idrici. Questo è dovuto all’uso di fertilizzanti, pesticidi e al cambiamento di uso del suolo necessario per l’aumento della produzione agricola. Aumento testimoniato dal fatto che il Governo tailandese tra il 2014 e il 2019 ha esteso di 408.000 ettari le piantagioni di canna da zucchero.
Oggi il principale Paese dove TotalEnergies Corbion esporta il biopolimero Luminy è proprio l’Italia, la regina del monouso. Un Paese che, come vedremo nella prossima puntata di questa inchiesta, sta traghettando il commercio europeo di bioplastica monouso disobbedendo ai divieti della direttiva europea sugli articoli usa e getta.
Hanno collaborato a questa investigazione Daiva Repeckaite e Jelena Malkowski
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Immagine di copertina: Peggy Anke, Unsplash