Viene pubblicizzato come “bucato zero waste”, ma la plastica idrosolubile che avvolge alcuni prodotti di detergenza in capsule potrebbe non biodegradarsi come promesso dalle aziende, causando effetti potenzialmente negativi sull'ambiente.

Il caso è esploso negli Stati Uniti il 9 febbraio 2024, quando il democratico James Gennaro, membro del consiglio comunale di New York City, ha presentato un disegno di legge per vietare nei 5 distretti della città la vendita di capsule e fogli detergenti contenenti film in alcol polivinilico (PVA). Si tratta di un tipo di polimero sintetico derivato dal petrolio che, grazie alla sua solubilità in acqua, trova spazio come imballaggio in numerosi settori. Il divieto proposto nel decreto ha riacceso i riflettori su una disputa ambientale di lunga data negli Stati Uniti: i film in PVA delle capsule detergenti si biodegradano realmente? Oppure finiscono per contaminare gli ecosistemi acquatici? 

Il dibattito sulla biodegradabilità del PVA

La controversia inizia nel novembre del 2022, quando l’azienda americana di prodotti di detergenza Blueland ‒ insieme a numerose organizzazioni ambientaliste ‒ invia una petizione all’Agenzia di protezione ambientale statunitense (EPA). I firmatari chiedono di rimuovere il PVA dalla lista degli ingredienti chimici sicuri, almeno finché non vengano condotti test più approfonditi sulla biodegradabilità del polimero negli impianti di depurazione. Le accuse sono pesanti: Blueland sostiene che il PVA contribuisca all'inquinamento da plastica di oceani, corsi d’acqua e suolo e che potrebbe avere un impatto negativo su ecosistemi e approvvigionamento di cibo e acqua. 

Nella petizione, poi rigettata dall’EPA, Blueland cita in particolare uno studio ‒ commissionato e finanziato dalla stessa azienda ‒ condotto dal centro di ricerca Shaw Institute. L'obiettivo del paper è stimare la quantità di alcol polivinilico non filtrata dai depuratori statunitensi. “Delle circa 19.000 tonnellate di PVA consumate ogni anno per le capsule detergenti biodegradabili negli Stati Uniti, stimiamo che circa 11.000 tonnellate raggiungono gli impianti di trattamento – spiega a Materia Rinnovabile Charles Rolsky, direttore del Shaw Institute – Di queste, circa il 75% non viene trattato, non si biodegrada e viene rilasciato nei corsi d’acqua.”

Secondo l’American Cleaning Institute (ACI), l’organizzazione che rappresenta i produttori americani di prodotti per la pulizia domestica e industriale, quella condotta da Blueland è una campagna diffamatoria. L’ACI si difende sostenendo che il PVA dei prodotti detergenti in commercio si biodegrada completamente a distanza di 90 giorni e che non persiste in ambiente. 

I tempi di biodegradazione

Per descrivere la solubilità in acqua del PVA, Charles Rosky parla del sale: “Una volta sciolto in un bicchiere d’acqua scompare ai nostri occhi, ma questo non vuol dire che non ci sia più”. Il polimero quindi cambia semplicemente forma, andando ad alterare le proprietà fisico-chimiche del liquido in cui viene dissolto. Dopo essersi sciolto nell’acqua durante i cicli di lavaggio di lavatrici e lavastoviglie, il PVA si mischia con le acque di scarico per uso domestico. A questo punto inizia il processo di biodegradazione che, secondo i test di laboratorio documentati dall’American Cleaning Institute, impiegherebbe 28 giorni per degradare il 60% del polimero, 90 per una completa degradazione.

“Il problema è che le condizioni necessarie affinché ciò accada sono estremamente specifiche”, commenta Rolsky. “Non si trovano in ambiente e nemmeno nella maggior parte degli impianti di depurazione presenti negli Stati Uniti." Secondo Rolsky negli esperimenti in laboratorio si creano appositamente le condizioni perfette affinché il PVA si degradi, circostanze che però non si verificano nella realtà. Un’altra criticità, fa notare il direttore dello Shaw Institute, riguarda il fatto che solitamente gli impianti non trattano l’acqua per più di 48 ore. Un tempo di gran lunga inferiore rispetto ai 90 giorni necessari per biodegradare il PVA. 

Nel rispondere alle accuse, l’American Cleaning Institute ha pubblicato un comunicato stampa in cui prova a smontare punto per punto gran parte dei risultati della ricerca. Tra le argomentazioni appaiono più volte le risposte dell’EPA alla petizione di Blueland. Sulla questione biodegradabilità l’agenzia spiega che le condizioni dei test riflettono un compromesso tra gli scenari del mondo reale e una coerente metodologia di analisi in laboratorio.

Un riassunto grafico dello studio. Credit: Charles Rolsky, Varun Kelkar, Shireen Dooling.

L’ecotossicità del PVA

Oltre ai prodotti detergenti, l’alcool polivinilico trova applicazione in numerosi settori, tra cui quello cosmetico, dell’industria alimentare, tessile, cartario e medico. “A livello globale sono prodotte annualmente milioni di tonnellate di PVA”, spiega a Materia Rinnovabile Simona Mondellini, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano. "Nonostante non si sappia ancora molto sulla concentrazione di PVA nei sistemi acquatici, possiamo assumere che l’alcol polivinilico sia presente sia in acqua che nel suolo, in quanto viene utilizzato anche per la dispersione graduale di fertilizzanti.”

Mondellini è un’ecotossicologa, si occupa di studiare gli effetti delle sostanze chimiche nell'ambiente. Nell’ambito del progetto di ricerca LimnoPlast ITN ha potuto testare, presso l’Università di Bayreuth, in Germania, la tossicità di 5 polimeri solubili, tra cui il PVA, su Daphnia magna, un crostaceo di acqua dolce che viene comunemente utilizzato per i test ecotossicologici. “Abbiamo visto che l'alcool polivinilico ha effetti negativi sulla crescita di Daphia magna”, commenta Mondellini. “Ciò significa che questi crostacei crescono e si riproducono molto meno: in natura potrebbe avere ripercussioni a livello ambientale.”

In presenza delle concentrazioni di PVA prese in considerazione dallo studio, questi organismi possono quindi subire una riduzione delle proprie dimensioni, che li può rendere suscettibili alla predazione di altri animali. Inoltre, un minore tasso di riproduzione può andare a scombinare la catena alimentare dell’ecosistema.

Non chiamatela microplastica

I test su Daphia magna sono usati come riferimento anche per approvare le sostanze chimiche nel regolamento europeo REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals). Il testo, in vigore dal 2006, esclude tutti i polimeri dalla regolamentazione, a meno che non esistano comprovati rischi ambientali o pericoli alla salute umana. Successivamente, il 17 ottobre 2023 l’Unione europea ha deciso di bandire dal mercato UE alcune microplastiche primarie, ovvero quelle inserite volontariamente in cosmetici, detergenti, tessuti e tanto altro.

Tuttavia, da questo aggiornamento rimangono esclusi i polimeri biodegradabili e quelli solubili come il PVA. Il motivo è che non rientrano nella definizione di microplastiche, descritta da Bruxelles come “particelle di polimeri sintetici inferiori a 5 mm, organiche, insolubili e resistenti alla degradazione”. Al di là delle definizioni, per la comunità scientifica gli impatti ambientali dell'alcool polivinilico sono ancora da approfondire. Come lo è la sua effettiva biodegradabilità negli impianti di depurazione delle acque reflue. 

Ad aspettare delle risposte sono quei consumatori che, per evitare di comprare flaconi di plastica usa e getta, pensano alle capsule in PVA idrosolubile come a una soluzione zero waste. Immaginando con il loro lavaggio “eco friendly” di proteggere il Pianeta dalla plastica. 

 

Immagine: Envato