L’8 e il 9 giugno si vota per le elezioni europee. Per ribadire l’importanza di questo voto e contribuire a un sano dibattito, Materia Rinnovabile ha intervistato alcuni candidati e candidate italiani all’Europarlamento, a cui ha chiesto idee e programmi in materia di ambiente, transizione ecologica, Green Deal, riforme dei trattati e non solo.

Per la coalizione Stati Uniti d’Europa, la lista che comprende +Europa di Emma Bonino e Italia Viva di Matteo Renzi insieme ad altri quattro movimenti politici (Partito Socialista Italiano, Radicali Italiani, Libdem Europei e L’Italia c’è), abbiamo parlato con Alfonso Maria Gallo. Classe 1990, un background di studi scientifici e un forte impegno per i diritti degli animali, Gallo è stato eletto tesoriere di +Europa nel gennaio 2023 e si presenta ora alle europee come candidato per il Sud Italia.

 

Se verrà eletto, quali saranno le priorità del suo mandato come europarlamentare?

Mi sono avvicinato alla partecipazione attiva alla politica attraverso la Gioventù Federalista Europea, perciò per me uno degli obiettivi essenziali in questo momento è la Federazione europea. Anche perché la transizione ecologica richiede un livello di cooperazione, coordinazione e integrazione che soltanto una federazione potrebbe offrire. La mia priorità è dunque lavorare per questo grande obiettivo, che non è solo un sogno ma sta diventando sempre di più una necessità.

È insomma l'obiettivo che dà il nome alla vostra coalizione, gli Stati Uniti d'Europa.

Esatto. Ed è del resto l’obiettivo che oggi racchiude al suo interno tutte le sfide che sta affrontando l'Unione Europea. Da europeista e federalista sono però anche “euro-critico” e consapevole dei limiti dell’Unione. È importante secondo me, oltre a evidenziare le tante cose positive che l’UE ha fatto e sta facendo, anche rendersi conto delle criticità. Ma non, come fanno alcuni, per riproporre la soluzione nostalgica del ritorno al passato con gli Stati-nazione. Bisogna invece far capire che questi limiti e queste vulnerabilità che oggi come Europa viviamo, esistono perché non si è andati avanti nel processo di unificazione. Occorre dunque fare un passo in più verso una federazione che porti a un'Europa più forte, in grado di affrontare quelle che sono oggi le sfide globali, dalla situazione geopolitica alla questione ambientale e al cambiamento climatico, dalla transizione ecologica a quella digitale e industriale.

Parlando di limiti, quali sono secondo lei gli aspetti più urgenti da rafforzare? Istituzioni, diplomazia, commercio, difesa?

Secondo me la prima cosa da superare è il diritto di veto, cioè la questione dell'unanimità. L'unica politica che ha fatto l'Unione a livello estero, nel bene e nel male, è quella dell'allargamento [l’integrazione di nuovi Stati membri, ndr]. Ma con una politica di allargamento necessariamente bisogna andare poi in una direzione federalista. Lo vediamo del resto anche a livello di istituzioni: quella che funziona meglio è la BCE, la Banca centrale europea, che opera con un sistema federalista, cioè non ha bisogno necessariamente dell'unanimità per prendere le decisioni. Quindi il primo ostacolo che vedo ‒ che poi a cascata colpisce tutte le politiche, da quelle estere a quelle interne ‒ è l'unanimità. Bisogna poi andare verso una maggiore standardizzazione delle regolamentazioni e dei processi decisionali, lasciando sicuramente autonomia agli Stati sulle questioni locali, ma cercando di avere una gestione coordinata su macro-tematiche importanti. Questo non significa che io voglia un’Europa “super-Stato”, con un presidente che decide per tutti gli Stati. La nostra visione è invece quella di una forte democrazia che si rafforzi proprio grazie al federalismo.

E per quanto riguarda la diplomazia e l’influenza europea sugli scenari geopolitici?

L’Europa è stata definita un gigante commerciale, un nano politico e un verme militare. E oggi vediamo chiaramente che la definizione è esatta. Se sommiamo la spesa per la difesa di tutti gli Stati membri, raggiungiamo una spesa simile a quella di altre superpotenze: il problema è che, di fatto, non abbiamo un tipo di difesa al loro livello. Ai tanti che oggi criticano la NATO, io allora rispondo che se non vogliamo la NATO dobbiamo però avere una difesa unica europea, un esercito europeo. È una necessità che di questi tempi purtroppo diventa sempre più pressante. Lo abbiamo visto in vari scenari, come in Afghanistan, dove abbiamo dovuto seguire a ruota gli Stati Uniti. Ma anche adesso nel conflitto in Ucraina, o in Medio Oriente, questione su cui l'Europa al momento ha due voci. E quando hai più di una voce, è chiaro che non puoi avere grande influenza.

Uno dei compiti principali dei prossimi Commissione e Parlamento sarà la riforma dei trattati UE. Che cosa ci possiamo aspettare?

Sarà proprio questo il vero bivio. Penso ad esempio al Green Deal: su questi temi abbiamo dei target ambiziosi e l'Europa sta riacquistando una centralità nello scacchiere internazionale, facendo comprendere che l'unico modo per orientare l'economia e modificare il sistema produttivo è quello appunto di riportare la politica al centro. Ma tanti partiti vanno in direzione opposta, battendosi (come fa Fratelli d'Italia) per mantenere il diritto di veto. Il problema è che, se resta il diritto di veto, è difficile immaginare la ratifica dei trattati che prevede oggi l'unanimità. Noi proponiamo come soluzione una Federazione europea “a due velocità”: si tratterebbe di creare un primo nucleo di Paesi che, restando all’interno dell'Unione Europea, decidano di fare un passo in più adottando politiche di difesa, economiche, fiscali e sanitarie unitarie. Auspicabilmente, vedendo che questo nucleo si rafforza, altri Paesi sarebbero poi spinti a voler entrare nella Federazione europea. Non è ovviamente semplice. Anche perché molti partiti vanno oggi nella direzione opposta, descrivendo la cessione di sovranità da parte dello Stato-nazione come una perdita di potere. Non capendo che in realtà è l'opposto, e la questione della regolamentazione dei flussi migratori ce ne fornisce la prova.

Si riferisce al Trattato di Dublino?

Sì. La ratifica del Trattato di Dublino è stata boicottata per 18 volte dalla Lega e viene utilizzata poi come argomento di propaganda, quando in realtà non si lavora per una soluzione. La cosa assurda è che spesso si cerca di mantenere il problema irrisolto per avere qualcosa da raccontare ai propri elettori. In Italia, ad esempio, sulla questione del Trattato di Dublino [i partiti di destra] raccontano che l'Europa dovrebbe farsi carico della ridistribuzione dei migranti, ma sono poi vicini a Viktor Orbán o ad altri Stati che vogliono l'esatto opposto, a tutto svantaggio dei Paesi del sud Europa che stanno soffrendo maggiormente la questione dei flussi migratori.

Ha accennato al Green Deal. Come rafforzare l’impegno dell’Unione su questo tema cruciale?

Gli aspetti interessanti sono molti. Partiamo ad esempio dall’ecodesign, che significa andare nella direzione di una regolamentazione decisa e concordata insieme. Per arrivarci è necessario anche qui superare la narrazione dell’Europa come soggetto astratto, che cala dall’alto i regolamenti, quasi come se l'Italia non facesse parte di quei processi decisionali. Stesso discorso si può fare per la direttiva “Case green”. È chiaramente un tema importante, ma la proposta europea si è già “diluita” lasciando sempre più libertà agli Stati membri, e questo si tradurrà secondo me in una sostanziale inefficacia della manovra.

Ci sono comunque dei risultati e degli spunti virtuosi che vanno sottolineati, come ad esempio, in ambito di economia circolare, le nuove tecnologie di blockchain e intelligenza artificiale usate per la tracciabilità dei materiali, o il passaporto digitale dei prodotti che, legandosi al diritto alla riparazione, diventa uno strumento per informare il consumatore e metterlo in condizione di fare delle scelte più consapevoli. Credo che su questi temi l’Unione Europea stia facendo delle cose importanti che forse sono passate un po’ in sordina. Penso ad esempio alla standardizzazione delle porte USB-C [per un caricabatterie universale che ridurrebbe i rifiuti elettronici, ndr]. Alcuni colossi tecnologici, come la Apple, hanno provato a opporsi in tutti i modi, ma alla fine si sono dovuti adeguare visto che l’UE rimane comunque un grande mercato da cui non si può essere tagliati fuori. Insomma, se l’Europa non può competere con i colossi del tech, né a livello di capitali né per capacità, quello che può fare è però regolamentare. Si tratta di una facoltà che è stata molto sottovalutata, ma che (e lo abbiamo visto in varie occasioni, come nel caso del GDPR, il regolamento a tutela della privacy) può avere molta influenza a livello internazionale.

Parliamo invece di target climatici. La Commissione indica una riduzione netta delle emissioni di gas serra del 57% al 2030 e del 90% al 2040, per arrivare alla neutralità carbonica nel 2050. L'Europa ce la farà?

I target per la carbon neutrality dal 2030 al 2050 sono sicuramente obiettivi ambiziosi, ma temo che non stiamo lavorando efficacemente per raggiungerli, a meno di non mettere come primo focus quello del federalismo europeo e di processi decisionali più rapidi.

Ma da un punto di vista meramente energetico cosa occorre fare? Che ruolo dovrebbero avere secondo lei fonti energetiche controverse come il gas e il nucleare?

Innanzitutto serve ora differenziare le forniture. Abbiamo ben compreso come in un clima di instabilità geopolitica sia fortemente rischioso dipendere da pochi o da un unico fornitore. La questione del gas è complessa, perché comunque va immaginato il superamento di tutti i combustibili fossili nel 2050. Questo significa chiaramente puntare sulle fonti rinnovabili, ma per farlo bisogna anche fare in modo che le supply chain siano più sicure, visto che chi produce ed esporta fotovoltaico oggi, lo sappiamo, è in gran parte la Cina. L’Europa ha bisogno dunque di investire in una sua strategia industriale circolare, che non solo sarebbe a vantaggio dell'ambiente, ma avrebbe anche un importante valore strategico permettendoci una maggiore indipendenza nelle catene di approvvigionamento.

Una strategia unica per tutta l’Unione è quello di cui abbiamo bisogno anche per il nucleare. So che è un tema divisivo, soprattutto in Italia. E non dico che ogni Stato debba avere per forza le sue centrali. Ma se, anche in Italia, ci sono realtà virtuose che producono componentistica di alta precisione per i reattori, questo va considerato. Del resto, se anche l’obiettivo è di produrre oltre l’80% dell’energia con le rinnovabili, la parte restante dovremmo comunque produrla con qualcosa, e se dobbiamo abbandonare le fossili quello che rimane è il nucleare. Non so quale sarà la tecnologia migliore, se gli Small Modular Reactors o gli HTGR. Ma il punto è che sono decisioni che andrebbero prese insieme a livello europeo, non lasciando che ogni Stato corra per conto suo. E in ogni caso vanno tenute in considerazione anche tecnologie d’avanguardia, come l’idrogeno e, in un futuro un po’ più lontano, la fusione nucleare. Infine, una cosa che tengo a sottolineare è che bisogna fidarsi della comunità scientifica, sia che si parli di clima, di energia o di altre questioni, come ad esempio la sanità.

La transizione, energetica ed ecologica, avrà ovviamente dei risvolti sociali. Che peso deve avere secondo lei il tema della Just Transition?

La transizione deve necessariamente considerare anche gli aspetti sociali e includere i sindacati e i lavoratori nel processo decisionale. Altrimenti il rischio è che i timori, a volte anche legittimi, dei lavoratori vengano sfruttati da una certa parte politica, e così finiamo per ritrovarci in situazioni difficili come è successo con le proteste degli agricoltori di questo inverno. Vanno dunque considerati i lavoratori come base di questa trasformazione perché si possa parlare di transizione equa.

Veniamo, per finire, ai soldi. Abbiamo parlato di politiche di sostenibilità e Green Deal, ma per realizzarle servono delle riforme finanziarie e fiscali. Quali secondo la vostra coalizione sono prioritarie?

Tra quelle che stanno funzionando c’è sicuramente l’SFDR, la Sustainable Finance Disclosure Regulation, un regolamento molto attento all'aspetto della trasparenza e ai rischi di greenwashing. Dal punto di vista dei fondi che servono per la transizione, secondo me è sempre più necessario un debito comune europeo. Non si può lasciare agli Stati l'onere di dover investire autonomamente soltanto le loro risorse, perché questo alla lunga porterebbe a un aumento di competizione fra i Paesi UE in alcuni settori, e soprattutto ad accentuare le differenze e diseguaglianze già esistenti. Ad esempio, se la direttiva Case Green scarica la responsabilità dell'attuazione unicamente sullo Stato membro, è probabile che questo contribuisca ad alimentare il malcontento contro l'Unione Europea e soprattutto si traduca in una inefficacia nel raggiungere gli obiettivi della direttiva stessa. Il debito comune secondo me è la soluzione.

Un'ultimissima battuta: perché è importante andare a votare per queste elezioni?

È importante andare a votare sempre, ma lo è soprattutto per queste elezioni che sono state definite da tanti analisti le più importanti degli ultimi cinquant'anni. L'Europa è a un bivio. È fondamentale oggi comprendere non solo i benefici innegabili che ha portato ‒ la pace, il mercato unico, la crescita di tanti Stati europei – ma anche le criticità, e rendersi conto che c'è chi utilizza queste criticità per spaventare i cittadini e convincerli che la soluzione è togliere potere all'ente sovranazionale per ritornare al passato degli Stati-nazione. La storia tuttavia ci insegna che cosa succede ad avere tanti piccoli Stati con il loro potere: quando si supera la diplomazia, il conflitto, da diplomatico ed economico, ritorna a essere quello armato. Ecco perché è importante andare a votare: perché di fronte a questo bivio possiamo scegliere se tornare al passato o se guardare a un futuro più sostenibile, più equo e più solidale. E infine, è necessario andare a votare perché la realtà in cui viviamo non è stata calata dall’alto, ma l’hanno modellata le persone, e continuano a farlo. Solo che spesso chi cambia la realtà la cambia in un modo che a noi non piace. Quindi dobbiamo riappropriarci dello strumento politico, che è l'unico strumento che abbiamo democraticamente per cambiare le cose. Tutti possiamo avere la presunzione di cambiarle in meglio, e tutti sicuramente abbiamo la responsabilità di contribuire al cambiamento.

 

Scopri qui le altre interviste

 

Immagine: Alfonso Maria Gallo