Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha dichiarato a Bruxelles, lo scorso giugno, il suo auspicio che le forze armate diventino “green and strong”. Un obiettivo che non può essere raggiunto senza un investimento nella ricerca scientifica interna all’Alleanza.
Per stabilire quali siano le priorità e l’agenda da seguire, ricercatori ed esponenti politici e militari nell’ambito della NATO si sono riuniti dal 3 al 5 ottobre a La Spezia, città che ospita il NATO Science & Technology Organization (STO) Centre for Maritime Research and Experimentation (CMRE).
Se a fronte degli impatti dei cambiamenti climatici su infrastrutture critiche e operazioni le soluzioni di adattamento risultano ormai indispensabili e catalizzano gli sforzi in termini di ricerca e sviluppo, la decarbonizzazione resta in secondo piano.
La NATO riconosce il cambiamento climatico come moltiplicatore di minacce
Le sfide ambientali ‒ gestione delle risorse idriche, sicurezza energetica, calamità naturali, smaltimento di armamenti, per citarne solo alcune ‒ sono state prese in considerazione dalla NATO sin dalla fine degli anni Sessanta con il programma Science for Peace and Security e altre iniziative di cooperazione. Il riconoscimento del cambiamento climatico come moltiplicatore di minacce è tuttavia recente, in evidente ritardo rispetto al dibattito politico e scientifico internazionale.
Nel mese di marzo 2021 i Ministri degli Esteri NATO hanno approvato l’agenda su cambiamento climatico e sicurezza che ha portato all’adozione al Summit di Bruxelles, il 14 giugno 2021, di un piano d’azione quadripartito, Climate Change and Security Action Plan: consapevolezza, adattamento, mitigazione, sensibilizzazione. A sancire definitivamente la priorità accordata alla questione è stata l’inclusione nel principale documento strategico pluriennale dell’Alleanza, denominato Strategic Concept, nel 2022.
La prospettiva della NATO, alleanza politica e militare composta da soli trentuno Paesi, alcuni tra i più responsabili in termini di emissioni storiche climalteranti, su un fenomeno globale, è peculiare. Sia il piano d’azione che il documento strategico individuano gli impatti principali del cambiamento climatico nelle difficoltà maggiori se non inedite nello svolgimento delle operazioni militari, la ridefinizione degli equilibri geopolitici a fronte della trasformazione di alcune aree del globo, anzitutto l’Artico, e la destabilizzazione sociale che potrebbe alimentare nuovi conflitti o ostacolare i tentativi di superamento in atto.
Come il cambiamento climatico impatta sulle operazioni militari
La seconda edizione del NATO Climate Change and Security Impact Assessment, pubblicato a luglio 2023 a cura della divisione Emerging and Security Challenges, fotografa i rischi sempre più elevati di missioni e operazioni in condizioni meteorologiche estreme e in risposta a disastri naturali. Ondate di calore e siccità hanno impatti sulle operazioni a terra, mentre le turbolenze e l’aumento delle temperature ostacolano l’aviazione.
Non risulta difficile immaginare gli effetti del calore eccessivo sulla salute delle truppe, ma è meno noto che già a 40°C l’aria più calda e meno densa impedisce il decollo degli elicotteri. Nel dominio marittimo, l’acidificazione dell’oceano rende necessaria una manutenzione più frequente della flotta e l’aumento della temperatura dell’acqua influenza la qualità delle comunicazioni sottomarine.
Il report analizza alcuni casi studio relativi a infrastrutture critiche e asset militari. Oltre alla base navale di Norfolk, in Virginia ‒ il più ampio complesso navale nel mondo, nella zona più interessata dall’innalzamento del livello del mare della costa orientale degli Stati Uniti ‒ compare la NAS (Naval Air Station) di Sigonella, in Sicilia, colpita da innalzamento delle temperature, ondate di calore, siccità e desertificazione.
Le conseguenze geopolitiche del cambiamento climatico
Il Medio Oriente, dove il cambiamento climatico al contempo aggrava le situazioni di instabilità e ostacola le missioni NATO, come quella avviata in Iraq nel 2018, resta una regione di interesse strategico per l’Alleanza, ma la nuova area di competizione geopolitica è quella dell’Artico in trasformazione. La fusione dei ghiacci polari sta aprendo nuove rotte e nuove possibilità di estrazione e sfruttamento di risorse naturali, idrocarburi ma anche materie prime necessarie per la transizione ecologica, in territori che restano ostili, con il rischio di incidenti e dispute.
Lo scioglimento del permafrost ha già causato delle criticità per i siti radar del North American Aerospace Defence Command, in Alaska e in Canada, che consentono l’individuazione di minacce aeree e missili balistici intercontinentali. Con l’ingresso della Finlandia nella NATO e l’avvicinamento della Svezia all’Alleanza, la Russia resta isolata tra gli otto Paesi del Consiglio Artico, i cui lavori sono stati sospesi in seguito all’invasione dell’Ucraina. Anche la Cina ha rafforzato la presenza nella regione.
Le pesanti emissioni di gas serra del settore militare
Nel suo intervento durante la conferenza, Ethan Corbin, Direttore del Comitato difesa e sicurezza dell’Assemblea parlamentare NATO, è stato chiaro nel riconoscere il contributo massiccio del settore militare, e in particolare dell’esercito statunitense, alle emissioni di gas climalteranti.
Con altrettanta chiarezza ha, tuttavia, riportato quali siano le priorità dell’Alleanza: sebbene la decarbonizzazione potrebbe avere dei co-benefici ‒ in primis la minore dipendenza energetica da Paesi esterni se non avversari ‒ la prontezza operativa non sarà sacrificata alla transizione ecologica.
Si stima che se il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti fosse una nazione, sarebbe al 54° posto per emissioni nella classifica mondiale, mentre sono quasi irreperibili le informazioni sul contributo delle forze armate di Russia, Cina e India.
La decarbonizzazione resta una chimera
In assenza di una metodologia di calcolo accurata e di un’accordo internazionale dedicato, le emissioni di gas serra del comparto militare, seppur rilevanti, sfuggono ai report scientifici e ai negoziati internazionali ‒ da ultimo, al processo del primo Global Stocktake dall’Accordo di Parigi, che si concluderà alla COP28. La prima versione del protocollo sviluppato dalla NATO e reso pubblico a luglio del 2023, The NATO GHG Emission Mapping and Analytical Methodology, è embrionale e non prende in considerazione le emissioni correlate agli armamenti.
Durante la conferenza sono state presentate azioni di adattamento, allo studio o già in atto, come le possibilità di impiego di nature-based solutions per la protezione degli asset militari elaborate da U.S. Army Corps of Engineers. Sul fronte della mitigazione, invece, molti dei presenti hanno manifestato scetticismo rispetto alle possibilità di sostituire carburanti e sistemi di propulsione nei mezzi di trasporto, nonostante alcune soluzioni siano oggetto di ricerca, come gli e-fuels.
Attualmente gli sforzi si limitano, infatti, alla riduzione dell’impatto sul clima delle sole basi militari. In tale direzione anche la Strategia energetica per la difesa del 2022, che compare in quota italiana tra le “best practices” NATO.
Il ruolo degli Alleati
Il piano d’azione NATO su cambiamento climatico e sicurezza sopra menzionato prevede anzitutto lo sviluppo della consapevolezza delle singole Nazioni nell’Alleanza, ma solo un terzo di queste ha già integrato i cambiamenti climatici nei piani per la sicurezza nazionale, con il protagonismo degli Stati Uniti, rappresentati alla conferenza da Sherri Goodman, Deputy Undersecretary of Defense fino al 2001, e del Canada, che ospiterà un nuovo centro di eccellenza NATO dedicato.
Al Summit di Vilnius, nel mese di luglio, gli Alleati hanno rinnovato il comune impegno sulla questione clima e sicurezza. A fronte di una mobilitazione sociale inascoltata se non repressa, sarà forse l’atlantismo a imporre il tema della crisi climatica all’agenda politica nazionale?
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