Il Trattato dell’Alto Mare fa un nuovo storico passo avanti verso la sua entrata in vigore. Lunedì 19 giugno, i 193 Stati membri delle Nazioni Unite hanno infatti adottato ufficialmente quello che sarà, di fatto, il primo strumento legalmente vincolante per la “Conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale”.
Sebbene l’iter non sia ancora concluso – il Trattato dovrà essere firmato da almeno 60 Paesi – l’impegno dell’ONU è fondamentale per spingere i governi verso una rapida ratifica. Visto che, come ha sottolineato il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, “l’oceano, linfa vitale del nostro pianeta, è oggi minacciato su più fronti”, dal cambiamento climatico all’inquinamento fino all’overfishing.
Un Trattato per proteggere i due terzi dell’oceano
L’accordo sui contenuti del Trattato per la Conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale, meglio noto come Trattato dell’Alto Mare, è stato raggiunto lo scorso marzo dopo oltre un decennio di dibattiti e trattative.
L’adozione formale da parte delle Nazioni Unite segna ora una nuova tappa del percorso per avere, per la prima volta nella storia, uno strumento giuridicamente vincolante per gestire quello che fino ad oggi era considerato territorio di nessuno: le cosiddette acque d’altura. Si tratta in pratica di tutto il mare che si estende oltre le 200 miglia nautiche dalle coste, ovvero il 64% dell’oceano, che corrisponde più o meno al 50% della superficie terrestre. Un’area immensa che, proprio per la mancanza di una giurisdizione internazionale, è stata costantemente esposta al rischio di sfruttamento indiscriminato: estrazione di risorse, pesca incontrollata e scarico di rifiuti, anche radioattivi.
Gli obiettivi del Trattato dell’Alto Mare
Il documento contiene 75 articoli che coprono tutte le aree di attività umana negli oceani, allo scopo di “proteggere, prendersi cura e garantire l'uso responsabile dell'ambiente marino, mantenere l'integrità degli ecosistemi oceanici e conservare il valore intrinseco della diversità biologica marina”.
Tra gli obiettivi principali ci sono la gestione sostenibile degli stock ittici, la lotta agli effetti della crisi climatica e all’acidificazione delle acque marine, la lotta alle varie forme di inquinamento attraverso la richiesta di valutazioni di impatto ambientale obbligatorie per ogni attività, e la difesa degli ecosistemi con l’istituzione di Aree Marine Protette (che ad oggi riguardano solo l’1% dei mari d’altura).
C’è poi la questione dei diritti delle comunità indigene e locali, in particolare per quanto riguarda lo sfruttamento di risorse che, trovandosi in un’area di fatto appartenente “a tutti”, dovrebbero andare a beneficio dell’umanità intera. Ad esempio le risorse genetiche marine (o MGR), preziosissime per la ricerca farmaceutica e cosmetica, ma fino ad ora raggiungibili solo con costose spedizioni finanziate dai Paesi più ricchi e che, ovviamente, i piccoli Stati insulari o in via di sviluppo non si possono permettere. O, ancora, c’è la spinosa questione del deep sea mining, l’estrazione di minerali e metalli critici dai fondali abissali, che oltre a porre gravissimi rischi per gli ecosistemi, ripropone il problema dei diritti di sfruttamento.
La ratifica di questo trattato storico dovrebbe, insomma, permettere alla comunità internazionale di avere finalmente gli strumenti per operare e prendere decisioni al di fuori dei confini giuridici dei singoli Stati. Il condizionale è tuttavia d’obbligo visto che, come avvertono alcuni esperti e scienziati, il testo contiene delle zone d’ombra che consentirebbero pericolose eccezioni. La reale efficacia del Trattato dell’Alto Mare dipenderà, in definitiva, da come verrà implementato.
Immagine: Silas Baisch (Unsplash)