A metà febbraio, la Commissione Europea ha presentato la Visione per l’agricoltura e l’alimentazione, un documento che delinea una tabella di marcia per il futuro del settore agroalimentare e della sua filiera in Europa. L’obiettivo dichiarato è quello di rafforzare la competitività e la resilienza del settore, puntando su semplificazione, innovazione e digitalizzazione per migliorare l’efficienza lungo l’intera la catena produttiva. Tuttavia, il documento sembra presentare contraddizioni interne e poca chiarezza sul ruolo degli agricoltori all’interno di questa trasformazione. Se da un lato si parla di sostenere il settore, dall’altro manca una visione chiara su come questi principi verranno applicati concretamente. Ne abbiamo parlato con Cristina Guarda, europarlamentare Greens/EFA e agricoltrice, impegnatissima nelle politiche legate ai food system.
Qual è il tuo giudizio complessivo sulla Vision EU sui sistemi alimentari europei presentata dalla Commissione per l’agricoltura e l’alimentazione?
La Vision [qui il documento, nda] offre un’analisi assolutamente lucida sulla situazione attuale del mondo agricolo. Un settore caratterizzato da agricoltori anziani e da redditi incerti, significativamente inferiori rispetto alla media europea e, in generale, rispetto a tutti gli altri settori economici. Un settore in cui sussiste una carenza di servizi nelle aree rurali, insieme a un marcato divario di genere che rappresenta una sfida ulteriore per il settore, e in cui emerge chiaramente, attraverso l’analisi dell’impatto ambientale e climatico sull’agricoltura, quanto la capacità produttiva dipenda da questi fattori. In sostanza, viene proposta una fotografia estremamente nitida delle attuali problematiche del settore. Il problema, però, è la risposta politica a tutto questo. Piuttosto che affrontare la questione in continuità con la strategia Farm to Fork, che puntava a valorizzare il ruolo degli agricoltori all’interno dell’intera filiera alimentare con proposte progressiste, si assiste a un cambio di rotta. Il commissario per l’agricoltura Christophe Hansen sembra voler tornare a una logica più conservatrice, basata solo su competitività e attrattività del settore. Due parole che funzionano bene sul piano comunicativo, affiancate da termini popolari come semplificazione e innovazione, ma che, almeno per ora, restano prive di un contenuto concreto.
Puoi spiegarci più nel dettaglio quest’ultima affermazione?
Nel documento non c'è alcun riferimento concreto a cosa si intenda davvero per semplificazione. Non vengono forniti esempi pratici di quali aspetti burocratici l'Europa intenda effettivamente cancellare con questa strategia politica. Non si capisce se si parli di deregolamentazione o di una semplificazione reale e mirata. Perché, se si tratta di deregolamentazione ambientale, è chiaro che questa non risolverebbe affatto il peso della burocrazia che grava sugli agricoltori. Un altro punto è che spesso la burocrazia non è imposta dall’Europa ma nasce dai piani strategici nazionali. E qui sta la vera contraddizione. Poi c’è la questione dell’innovazione. Sembra esserci un approccio quasi ideologico, basato sull’idea che l’innovazione tecnologica sia la risposta a tutto. Viene dipinto un futuro in cui la tecnologia risolverà magicamente ogni problema: sistemi avanzati per catturare le emissioni, tecnologie di evoluzione assistita (TEA) per sementi super resistenti alla siccità e altro, pratiche che, al momento, non hanno ancora una fattibilità reale. Nel frattempo, nessuno sta investendo in settori di ricerca che potrebbero fare la differenza: migliorare le sementi per il biologico, sviluppare pratiche agroecologiche per ridurre il fabbisogno idrico, aumentare le performance del suolo e generare servizi ecosistemici fondamentali per la produzione alimentare. Nella Vision non ci sono neanche riferimenti a chi sta sperimentando nuovi modelli economici di distribuzione basati sulle filiere corte. Esistono già reti di ricerca e innovazione altamente performanti, basate sulla democrazia della ricerca e sul coinvolgimento diretto dei territori nelle sperimentazioni, ma di tutto questo, nel documento, non c’è traccia. Alla fine, il rischio è sempre lo stesso: si spinge per soluzioni tecnologiche costose, che indebitano forzatamente i piccoli e medi agricoltori, che spesso non hanno le risorse per permettersele.
Quali sono le principali proposte che il gruppo Greens/EFA sta promuovendo?
Come Verdi, abbiamo definito alcuni punti chiave per la nostra proposta sulla PAC per il futuro. Primo fra tutti, il reddito. Per noi è chiaro: i pagamenti devono essere vincolati alla creazione di lavoro e non semplicemente distribuiti in base alla superficie coltivata. Per questo proponiamo di fissare un tetto massimo di 60.000€ per azienda agricola e di redistribuire il resto delle risorse previste dalla PAC verso chi ne ha più bisogno: nuovi agricoltori, giovani agricoltori, piani di sviluppo rurale e finanziamenti per la transizione verso un’agricoltura rispettosa del clima e della biodiversità. Perché il diritto a una giusta retribuzione deve valere per tutti gli agricoltori. Sul piano ambientale, vogliamo rendere gli eco-schemi economici più attrattivi e vantaggiosi. Sappiamo bene che un agricoltore che adotta pratiche agroecologiche, se da un lato ha bisogno di più tempo e spazi per la produzione, dall’altro contribuisce a migliorare la qualità del suolo, a proteggere le falde acquifere dalle contaminazioni e ad aumentare la biodiversità. In poche parole, sta offrendo un servizio ecosistemico che genera benefici per l’intera comunità e per tutti i settori economici. Il principio che proponiamo è semplice: chi produce servizi ecosistemici deve essere remunerato per questo lavoro. Dobbiamo valutare l’azienda agricola nel suo complesso, riconoscendo economicamente tutte le azioni messe in atto per proteggere l’ambiente. Questo significa creare una nuova fonte di reddito, che garantisca un’entrata stabile indipendentemente dalle rese agricole.
Quali sono gli altri punti della vostra proposta?
Abbiamo un problema di dipendenza da altri paesi: importiamo fertilizzanti chimici, come il potassio, e mangimi per il bestiame. La risposta presente nella Vision della Commissione è aumentare la produzione interna, incentivare allevamenti più estensivi e risolvere il problema delle emissioni dell’allevamento attraverso le già citate "innovazioni". Qual è il problema? Non si può parlare di agricoltura estensiva senza ridurre il numero di capi allevati. Una strategia di allevamento più sostenibile non può prescindere da una revisione strutturale del settore. Ecco perché noi proponiamo una vera strategia di diversificazione delle proteine: non basta incentivare sistemi di allevamento più sostenibili, bisogna anche garantire pari supporto e promozione alle fonti proteiche vegetali e alternative. Ma questo cambiamento non può avvenire senza coinvolgere i cittadini, in quanto consumatori. La domanda di proteine sta cambiando e la politica non può ignorarlo. Eppure, questi due punti sono completamente assenti nella Vision attuale, mentre erano ben affrontati nella strategia Farm to Fork. Come ci poniamo in questo percorso? Proponiamo etichette chiare e affidabili che indichino l’impatto ambientale, l’origine regionale e gli standard di benessere animale, così da garantire ai consumatori la possibilità di fare scelte consapevoli. Il problema di fondo di questa visione è che da un lato si parla di resilienza dei sistemi produttivi, ma dall’altro si punta fortemente sull’export. Non si può parlare di sovranità alimentare e, nello stesso tempo, di una competitività basata sulle esportazioni. Per questo, chiediamo che l’orizzonte sia prima europeo e poi internazionale. Come Verdi, ci opponiamo all’accordo sul Mercosur, perché vogliamo un modello basato non sulla competizione globale, ma sulla valorizzazione dei mercati regionali e sul rafforzamento delle filiere corte, costruendo partnership alternative più sostenibili e resilienti.
Cambio argomento e ti chiedo dei PFAS, le sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate: quant'è importante oggi capire concretamente la reale diffusione dei PFAS e, allo stesso tempo, avviare interventi di bonifica per affrontare una situazione che in alcune aree è ormai critica?
Ci sono due aspetti fondamentali da affrontare. Il primo è bloccare la produzione e la dispersione dei PFAS, e questo significa investire nella ricerca per sviluppare alternative valide. Il secondo è trovare soluzioni per eliminare i PFAS già presenti nell’ambiente, perché il problema non si risolve solo smettendo di produrli: dobbiamo anche capire come distruggerli in modo efficace e sicuro. Attualmente sappiamo come catturarli, utilizzando carboni attivi, processi meccanici di filtraggio e resine. Ma il vero problema è la distruzione: le tecniche esistenti, come microonde, incenerimento e termovalorizzazione ad altissime temperature, sono estremamente costose e spesso producono sottoprodotti ancora più piccoli e potenzialmente ancora più pericolosi, di cui peraltro non conosciamo ancora tutti gli effetti. Quindi, come intervenire? Serve un investimento serio nella ricerca per trovare strategie efficaci di distruzione dei PFAS senza creare nuovi rischi. Dobbiamo anche lavorare per evitare che le aziende continuino a disperderli nell’ambiente, ad esempio promuovendo sistemi a ciclo chiuso che impediscano alle acque reflue contaminate di finire nei fiumi o nelle falde acquifere. Allo stesso tempo, è fondamentale supportare gli agricoltori nelle zone contaminate, aiutandoli a sviluppare tecniche di coltivazione che impediscano alle piante di assorbire i PFAS dal suolo. Perché il problema non riguarda solo l’acqua inquinata, ma anche i terreni, con conseguenze enormi sulla produzione agricola. Un altro punto cruciale è vietarne l’uso nei settori in cui esistono già alternative valide, come la cosmetica e il tessile. In questi ambiti, non ci sono più scuse: le soluzioni per sostituire i PFAS sono disponibili e i produttori devono essere incentivati a adottarle senza ulteriori ritardi. Insomma, la strada è chiara: bloccare la produzione e la dispersione, investire nella ricerca e trovare soluzioni per eliminare i PFAS in sicurezza.
Questo articolo è stato originariamente scritto per il sito Circular Economy for Food, un progetto dell'Università di Scienze Grastronomiche di Pollenzo
In copertina: Cristina Guarda