Proviamo a immaginare chi eravamo e che forma avevano i nostri pensieri in un momento che forse ricordiamo bene: la COP26 di Glasgow, in quell'autunno di fragile transizione tra la pandemia e il futuro. Eravamo felici e non lo sapevamo? Probabilmente eravamo ottimisti e non lo sapevamo.

Se aprissimo una finestra per osservare dalla prospettiva del tardo 2021 cosa è diventato possibile nel 2025, su cosa è diventato normale discutere, cosa stiamo accettando, probabilmente non crederemmo all'idea che abbiamo resistito a una pandemia globale solo per finire dentro a un clima di paranoia militare internazionale che sembrava dimenticato da generazioni.

Nel 2022 il Financial Times scrisse un editoriale che avrebbe fatto epoca: Welcome to the world of polycrisis. Due anni dopo siamo invece in un contesto in cui la crisi è tornata a essere singola, ideologicamente monolitica e altrettanto novecentesca: la guerra, con le sue ragioni che sembrano obliterarne ogni altra, clima, fame, debito, salute.

L'Europa era uscita dal Covid con due pilastri: transizione ecologica e digitale. Quella del Next Generation EU era un'idea precisa di futuro: verde, digitale e solidale. Era imperfetta, conteneva approssimazioni e scorciatoie, ma forse non ci eravamo resi conto di quanto fosse vasta l'ambizione con cui l'Unione voleva affrontare le sue policrisi e diventare il primo continente climaticamente neutrale allargando la base della prosperità collettiva. Menzionati oggi sembrano già concetti di un'altra epoca, eppure ancora pochissimo tempo fa ci credevano tutte le istituzioni e molti dei governi che compongono l'Unione.

Lo slittamento delle priorità europee è stato spaventoso non nella sua rapidità ma nella sua (apparente) inesorabilità, come essere finiti su un piano inclinato che non riusciamo a rimettere in equilibrio perché la spinta è tutta esterna.

L'aggressività militare di Putin e quella geopolitica di Trump tre anni dopo sembrano condividere lo stesso obiettivo: essere uno stress test per le convinzioni e le ambizioni degli europei. A quanto pare, non lo stiamo passando, questo stress test, se giudichiamo il panico con il quale ci stiamo quasi scusando per aver creduto di poter essere così ambiziosi.

Il Green Deal avrebbe (aveva?) bisogno di una convinzione pluridecennale per funzionare e dare forma al modello europeo di futuro, un modello del quale c'è disperatamente bisogno. Per ora sul piatto c'è quello cinese, la transizione su misura di un'autocrazia, un esperimento che sta portando risultati straordinari sia da un punto di vista geopolitico che industriale, ma che può funzionare soltanto in assenza di democrazia e opinione pubblica.

Dall'altro lato c'è il modello transazionale trumpiano, la sopravvivenza del più forte, aggressivo e spregiudicato, dove la scarsità di minerali critici (per fare un esempio) si risolve con l'estorsione, e non con l'economia circolare e la collaborazione.

È l'ideologia che accomuna Xi Jinping, Putin e Trump: far passare l'idea che l'Europa è il continente degli ingenui, che Green Deal e Next Generation EU fossero progetti senza fondamento nella realtà. Dobbiamo resistere a questa versione dei fatti.

Intendiamoci: non si può prosperare senza politiche sulla difesa, e una difesa comune è sempre meglio di una difesa individuale, ma l'Europa ha bisogno di un dibattito collettivo su cosa significhi difesa. Come ha suggerito il premier spagnolo Pedro Sánchez, anche evitare le prossime Valencia è una forma di difesa.

Abbiamo bisogno di un discorso sulla difesa che non parta solo dai comportamenti indotti da autocrati o aspiranti tali. Dobbiamo ricordarci chi siamo e da dove veniamo prima di avere conversazioni con Trump o Putin, non dopo averci parlato.

Stiamo sviluppando una fobia della debolezza, ma un'Unione di 450 milioni di persone che si fa indurre in modo così plateale le strategie future è esattamente questo: debolezza.

Vogliamo davvero che la difesa militare diventi il nostro prossimo appiglio identitario? Il mondo offre un buon numero di esempi di democrazie che funzionano in questo modo, da Israele alla Corea del Sud. Per motivi diversi, nessuna democrazia fondata sull'esercito rimane una democrazia sana a lungo.

Il punto non è quante armi comprare e a che prezzo, il punto è se vogliamo che le armi diventino il nostro modello di vivere civile. Per anni avevamo provato a seguire un'altra strada, avevamo investito risorse, tempo, capitale politico per essere qualcosa di diverso. Vogliamo rinunciarvi così velocemente? L'Europa immaginata in quella fase era un'idea radicale, ma ora dobbiamo chiederci: era un'idea infondata?

Come ha detto Jacopo Bencini, presidente di Italian Climate Network, nella piazza per l'Europa del 5 aprile a Bologna: “E allora l’Europa che vogliamo, verde, accogliente e pacifica, passa anche da un impegno appunto estremo, radicale, in ultima analisi utopico, come altri descrivono la nostra lotta per il clima. Sessant’anni fa l’Europa unita, l’Erasmus e Copernicus non c’erano. Pensarci era abbastanza estremo se non ridicolo, era sicuramente radicale, era decisamente utopico. Eppure…”.

È questo il bivio della storia dove ci troviamo oggi: era davvero così ridicola e inattuale quell'idea di Europa? Oppure è stata così attaccata dall'esterno perché sensata e pericolosamente desiderabile anche in altre aree del mondo?

 

In copertina: Antoine Schibler Gimanu, Unasplash