La sostenibilità è passata col tempo dall’essere un’opzione al diventare una priorità nelle strategie aziendali, complice non solo una crescente sensibilità sociale ma anche normative sempre più stringenti. Come la Direttiva CSRD, emanata dall’Unione Europea a dicembre 2022 e recepita dall’Italia a settembre 2024, che ha esteso l’obbligo di rendicontazione non finanziaria anche alle PMI quotate in borsa. Ma come si riflette questa normativa sulle aziende? Abbiamo fatto rispondere a questa domanda leader di imprese italiane di rilievo, in un ciclo di interviste che vuole esplorare come questa trasformazione stia ridisegnando il modo di fare business nel nostro paese. Ne parliamo qui con Veronica Rossi, Sustainability Senior Manager del Gruppo Lavazza e vincitrice del premio SDG Pioneer Italy 2024 nella categoria Large National and Multinational Organizations.
Partiamo da una domanda generale: come si inserisce la sostenibilità nella strategia del Gruppo Lavazza? Come vi siete organizzati per la CSRD?
Ho la fortuna di lavorare in un’azienda che alla sostenibilità crede da tempo, e questo ha permesso di prepararci con largo anticipo. Il mio dipartimento di sostenibilità, che fa parte della direzione Finance, è già un passo avanti per l’integrazione tra bilancio finanziario e non finanziario. Il dipartimento è costituito da quattro unità: supply chain, sostenibilità sociale, sostenibilità ambientale e strategia/reporting, dove lavora un team di tre persone che da mesi si dedica alla CSRD. La direttiva non si applica subito al Gruppo Lavazza, che si trova insieme alle aziende con più di 250 dipendenti non quotate, che partiranno nel 2026, ma il lavoro è iniziato ugualmente già quest’estate, con un anno e mezzo di anticipo. Il primo passo è stato fare una gap analysis, un punto di partenza obbligato. Lavazza ha già dieci anni di esperienza nei bilanci di sostenibilità usando gli standard GRI, ha già una solida struttura per la raccolta dati e coinvolge le società estere del gruppo da sei anni. Abbiamo sviluppato un tool di raccolta dati da tutto il mondo, con un sistema di approvazione strutturato: chi inserisce i dati li fa validare dal responsabile locale (per esempio, il responsabile salute e sicurezza in Francia), e poi questi vengono consolidati e approvati a livello di gruppo. Questo sistema non è ancora un vero e proprio controllo interno in stile CSRD, perché non coinvolge l’audit interno, ma è già un passo avanti: ruoli chiari, approvazioni definite e un processo rodato che, con qualche aggiustamento, potrebbe diventare conforme ai requisiti futuri. Per le gap analysis sugli SRS, ci stiamo facendo aiutare da una grande società di consulenza. Il motivo? Non solo la mole impressionante di data point che vengono richiesti, ma anche alcune complessità interpretative. Su certi punti c’è bisogno di una guida esterna per navigare tra definizioni che, a volte, risultano davvero intricate.
E poi, immagino, la doppia materialità. Ci state lavorando?
Anche sulla doppia materialità ci siamo mossi in anticipo: abbiamo già fatto l’esercizio quest’anno, lavorando in autonomia con il supporto del team di Accounting e Reporting. Essere integrati nella direzione Finance ci ha aiutato parecchio, soprattutto per far percepire anche ai colleghi che si occupano di bilancio tradizionale l’impatto di queste nuove richieste. Abbiamo messo in piedi un gruppo di lavoro congiunto tra accounting e sostenibilità, e stiamo lavorando su doppia materialità e tassonomia. Per quanto riguarda la tassonomia, Lavazza non era ancora coinvolta, ma adesso il nostro business legato alle macchine del caffè vi rientra. Stiamo quindi portando avanti un’analisi massiccia su tutte le tipologie di macchine prodotte e vendute, mentre il food, che resta il cuore del nostro business, non è ancora incluso nella tassonomia. Il 2025 sarà cruciale. Oltre al reporting, svilupperemo nuovi piani di azione per la transizione sostenibile e una revisione completa dei sustainability matters, con un piano dedicato per ciascuno di essi. Inoltre, dovremo potenziare il sistema di controllo interno, che al momento è ancora troppo basico per soddisfare le richieste della CSRD. Fortunatamente, abbiamo ancora un po’ di tempo per prepararci.
Per un’azienda come la vostra uno dei temi più importanti e delicati è quello della filiera. Una bella gatta da pelare per molte imprese…
Il Gruppo Lavazza ha un vantaggio sulla filiera grazie al lavoro impostato negli anni per altre esigenze. La catena del caffè, infatti, non è tanto complessa quanto lunga: per arrivare al contadino ci sono decine di passaggi e, come tutti i torrefattori, l’azienda acquista il caffè da trader internazionali, non direttamente dai produttori. Però fermarsi al trader non basta. Lavazza ha iniziato a fare analisi specifiche da tempo, spinta anche dalle richieste di grandi clienti internazionali, come catene alberghiere che esigono garanzie sulla sostenibilità della filiera per accettare fornitori. Questo percorso ha portato a sviluppare un sistema di valutazione dei rischi e delle opportunità legati alla filiera. Lavazza usa strumenti come Ecovadis, ben conosciuto, per analizzare i rischi della filiera. Questo tool viene utilizzato per valutare fornitori strategici, come quelli di caffè, macchine e packaging, escludendo i fornitori minori. In base ai punteggi Ecovadis, alla strategicità e allo spending, il team di sostenibilità effettua audit sul campo. Questa pratica rappresenta una buona base per sviluppare le policy e le procedure richieste dalla CSRD per la filiera. Naturalmente alcune attività, già operative e consolidate, necessitano ora di essere formalizzate meglio per soddisfare le nuove necessità.
Insomma, le criticità non sono poca cosa. Dal vostro punto di vista, guardando alle prospettive generali di sostenibilità, questa nuova normativa presenta più vantaggi o più svantaggi?
Da una parte, la CSRD è una spinta positiva: rende obbligatorio quello che altrimenti si farebbe a rilento, anche in aziende virtuose come il Gruppo Lavazza. Grazie alla direttiva, la nostra funzione ha ottenuto il via libera dall’interno su progetti e attività con una fluidità che sarebbe stata impensabile tre anni fa. Di questo sono contenta. D’altra parte, però, per alcune imprese c’è il rischio che diventi l’ennesimo obbligo percepito come un peso: le aziende potrebbero vedere queste normative non come un’opportunità per migliorarsi, ma come un carico di lavoro extra. È una linea sottile: la sostenibilità dovrebbe essere un abilitatore di cambiamento, non una checklist burocratica che appesantisce i team. Il problema della CSRD? È una macchina un po’ troppo pesante. Quei 500 data point, ad esempio, sono eccessivi: ne basterebbe un terzo. Si va a caccia di dettagli minimi che obbligano le aziende a mettere in piedi processi anche solo per ottenere un singolo dato. E non parliamo di chi raccoglie le informazioni, ma di chi le deve fornire, persone che già hanno il loro lavoro quotidiano e a cui adesso arriva un ulteriore carico. Il punto è che molte delle informazioni richieste non abilitano davvero il cambiamento. Le direttive dovrebbero servire a questo: spingere le aziende a migliorarsi. Quando invece si trasformano in un mero obbligo, si rischia di perderne il senso. Noi avevamo già iniziato un percorso, spinti da una volontarietà che nasceva dalla proprietà e dal management. Era più lento, certo, ma le persone comprendevano il valore di ciò che facevano. Adattarsi alla CSRD è una sfida, non dovrebbe diventare un peso.
Un peso che potrebbe essere schiacciante per le piccole imprese. Che ne pensa?
Mi immagino che per molte delle aziende italiane, soprattutto nelle piccole e medie, spesso la sostenibilità è ancora legata al riciclo, alla differenziata o alla filantropia. Faccio un esempio personale: dopo dieci anni che faccio questo lavoro, ancora oggi fatico a spiegare cosa significhi lavorare nella sostenibilità qui in Italia, a parte il confronto quotidiano con alcune grandi aziende. Quando lo racconto, la maggior parte delle persone mi guarda come se parlassi una lingua sconosciuta. All’estero, invece, la storia è diversa: in Francia, negli Stati Uniti o in Germania, c’è un riconoscimento immediato. È chiaro, si sa di cosa parli. E questo dice tanto sul gap culturale che dobbiamo ancora colmare.
Ultima domanda: nel suo lavoro lei si sente sostenuta dal vertice aziendale, o c’è qualcosa che potrebbe essere migliorato?
La nostra fortuna è che siamo un’azienda familiare al 100%. La famiglia Lavazza, dieci anni fa, ha preso la decisione di creare l’ufficio di sostenibilità. E con una proprietà così coinvolta, anche il management non può che essere a bordo. Devo anche aggiungere che recentemente abbiamo presentato nuove proposte che hanno trovato un’accoglienza immediata. Questo dimostra quanto sia importante alimentare una cultura della sostenibilità all’interno e avere una guida forte per spingere davvero il cambiamento.
Copertina: Max Nayman, Unsplash