Convertire metano e anidride carbonica in un gas di sintesi che può essere usato come risorsa energetica. È il processo alla base del Dry Reforming studiato da un gruppo di ricerca del Politecnico di Milano che apre nuove prospettive per la produzione di energia pulita.

Il team, guidato dal professore di ingegneria chimica Matteo Maestri, si è focalizzato sul processo di accumulo di carbonio sulla superficie dei catalizzatori, un fenomeno che ne riduce l’efficienza, pregiudicandone un’applicazione su larga scala. I ricercatori hanno utilizzato la spettroscopia Raman in operando, una tecnica avanzata per studiare i catalizzatori in tempo reale durante le reazioni chimiche.

La circolarità di CO₂ e CH₄: non solo scarti

Lo studio, dal titolo Surface Carbon Formation and its Impact on Methane Dry Reforming Kinetics on Rhodium-Based Catalysts by Operando Raman Spectroscopy, rivela che la formazione graduale di carbonio sui catalizzatori (cioè i materiali che abilitano e accelerano le reazioni chimiche riducendone la barriera energetica di attivazione) dipende strettamente dal rapporto tra anidride carbonica (CO₂) e metano (CH₄) presenti nella reazione, e apre la strada alla possibilità di prevenire o mitigare l’accumulo di carbonio, favorendo la ricerca su nuove soluzioni per valorizzare il gas di sintesi generato dalla reazione.

Il processo studiato, il Dry Reforming, consente di trasformare anidride carbonica e metano, due gas serra molto impattanti, in altre molecole utilizzabili chimicamente, potenzialmente a livello industriale. Spiega a Materia Rinnovabile il Matteo Maestri: “Il nostro lavoro concorre a rendere possibile questa reazione, introducendo un ciclo per cui i gas di partenza, in particolare la CO₂, non vengono rilasciati in atmosfera, dove avrebbero sicuramente un impatto non trascurabile.”

Con il Dry Reforming, CO₂ e metano diventano quindi materia prima. Questi due gas non vengono prelevati dall’atmosfera (dove sarebbero troppo diluiti), spiega Maestri, ma vengono ricavati da scarti biologici vegetali. “È una reazione molto circolare”, aggiunge Riccardo Colombo, uno dei dottorandi che si è occupato di questo studio. “Spesso, inoltre, si trascura l’impatto del metano, che è peggiore di quello della CO₂ in ambiente”.

“La novità della nostra ricerca è che abbiamo studiato il processo di formazione del carbonio mentre si stava verificando, grazie alla tecnica spettroscopica Raman in operando”, aggiunge Colombo. “È stato importante per capire le relazioni sia con l’attività sia con le condizioni operative, anziché osservare la formazione del carbonio solamente a valle, traendo delle conclusioni a posteriori.”

Riccardo Colombo

Sviluppi industriali

Pubblicato dalla prestigiosa rivista accademica Angewandte Chemie International Edition, di cui ha conquistato anche la copertina, lo studio è stato sviluppato grazie ai fondi del PNRR all’interno di NEST (Network for Energy Sustainable Transition), programma di partenariato tra università ed enti di ricerca che ha l’obiettivo di finanziare attività di ricerca di base per rafforzare le filiere della ricerca a livello nazionale e promuovere la loro partecipazione alle catene di valore strategiche europee e globali.

Ma il processo studiato non ha avuto finora uno sviluppo industriale. Secondo Maestri, uno dei motivi deriva proprio dal fatto che “la CO₂ non era mai stata vista come un prodotto di partenza, ma era sempre stato un prodotto di scarto. Era noto che la reazione potesse avvenire in alcune situazioni, ma veniva penalizzata dal fatto che il catalizzatore si disattivava in certe condizioni, a causa della formazione di specie carboniose sul catalizzatore. Il lavoro ha riguardato essenzialmente questo: chiarire che cosa determina la formazione di queste specie carboniose e il loro impatto sulla velocità del processo”.

Sul futuro sviluppo su scala industriale, Maestri commenta: “Per ora siamo ancora a livello di ricerca fondamentale, quindi è sempre difficile prevedere quello che riguarda anche altri attori, come chi lo porterà poi a livello industrie. Questo lavoro ha permesso comprendere in modo dettagliato il meccanismo che va a formare queste specie non volute sul catalizzatore. Conoscendole, pone le basi concettuali e scientifiche per poter indirizzare nuova ricerca – a questo punto tecnologica – per poter sviluppare un materiale che effettivamente riesca, sulla base di queste conoscenze, a limitare questo fenomeno.”

 “Questo è il valore della ricerca scientifica fondamentale: pone delle basi importanti, se fatta con rigore, con la strumentazione opportuna”, conclude Maestri. “È giusto chiedersi a che cosa servano questi studi. Ma bisogna ricordare che la ricerca fondamentale implica studiare un singolo pezzettino, e se è fatto bene, in modo rigoroso, quella tesserina servirà poi a chiudere un puzzle, e prima o poi in futuro avrà un’applicazione pratica.”

 

In copertina: Matteo Maestri