Il metano (CH₄) è un potente gas serra, che richiama molta meno attenzione della sorella maggiore, l’anidride carbonica, nota a tutti anche con la sua formula chimica, CO₂. A oggi per il CH₄ non c’è un target globale all’interno dei negoziati ONU sui cambiamenti climatici, solo un impegno generico, volontario, di 100 nazioni a ridurre del 30% le emissioni di metano di origine antropica entro il 2030. E, stando ad alcune scoperte recenti, nemmeno questo sforzo per ridurre le emissioni dall’estrazione di gas e petrolio e dal settore agroalimentare potrebbe avere l’impatto desiderato poiché – questa è la notizia preoccupante – le retroazioni nel sistema climatico (causate anche da CO₂ e CH₄ e altri gas serra generati dall’uomo) stanno aumentando le emissioni di metano da fonti naturali, in particolare dalle zone umide tropicali e nell’Artico.

Secondo un paper pubblicato il 30 luglio nella rivista scientifica Frontiers in Science, lo sforzo per fermare le perdite di metano dall’estrazione di gas e petrolio, dalle discariche e ridurre le emissioni enterogeniche degli allevamenti (il pledge è una riduzione del 30% su base volontaria) sarebbe subissato dal metano liberato dal permafrost e dall’aumento della decomposizione nelle zone umide causato dalle temperature medie globali record degli ultimi anni e dell’aumento della piovosità nelle aree tropicali. Inoltre, anche le azioni di riduzione delle emissioni antropiche di CH₄ per raggiungere il goal di -30% di metano rimangono sporadiche, mal documentate e lacunose.

Si legge nel testo dell’articolo: “Le emissioni di metano atmosferico sono in rapido aumento dal 2006 e alla fine dei primi anni Dieci hanno raggiunto tassi di crescita medi quinquennali che non si vedevano dagli anni Ottanta. Gli aumenti della concentrazione di metano nel 2021, inoltre, sono i maggiori registrati, con valori elevati per tutto il periodo dal 2020 al 2023”. Non si scappa: invece che diminuire, la CH₄ cresce, e sempre più rapidamente. Non solo: a livello globale, l'aumento del vapore acqueo causato dal riscaldamento globale sta rallentando la velocità di disgregazione del metano nell'atmosfera. Aumentando la durata di permanenza del gas in aria.

Dunque, concludono gli autori dell’articolo, “le emissioni antropiche [di CH₄] devono diminuire più del previsto per raggiungere un determinato obiettivo di riscaldamento", ovvero i 2°C considerati la soglia sicura dai climatologi per evitare gli effetti più catastrofici del cambiamento climatico. Oltre al fatto che, ovviamente, si deve continuare a ridurre le emissioni globali di anidride carbonica.

Perché serve un’azione globale sul metano

Il metano intrappola circa 80 volte più calore dell'anidride carbonica in un periodo di 20 anni e gli scienziati stimano che sia responsabile del 20-30% del riscaldamento climatico dall'inizio dell'era industriale, quando il metano atmosferico aveva una concentrazione di circa 0,7 parti per milione (ppm). Da allora è aumentato a zig-zag, raggiungendo un picco con il primo boom del gas fossile negli anni Ottanta, per poi stabilizzarsi leggermente prima di un'enorme impennata all'inizio degli anni 2000. La quantità di metano nell'atmosfera ha infatti raggiunto circa 1,9 ppm nel 2023, quasi tre volte il livello preindustriale. Questo global warming potential potentissimo fa sì che basti eliminare il CH₄ per avere effetti più rapidi e impattanti nel breve termine rispetto alla CO₂, aiutando nella sfida della decarbonizzazione. “L'aumento del metano da fonti naturali dovrebbe spronare ancora di più a ridurre le emissioni ovunque sia possibile, compreso l'uso di combustibili fossili e l'agricoltura”, ha dichiarato l'autore principale dello studio Drew Shindell, scienziato della Terra presso la Nicholas School of the Environment della Duke University.

Nel 2008 durante il boom del fracking negli Stati Uniti, in particolare in Pennsylvania e Texas, era comune assistere a incidenti durante il processo di fratturazione idraulica degli scisti argillosi per far fluire il metano. L’autore dell’articolo ne ha testimoniato almeno due casi nel 2009 in Pennsylvania, anche se all’epoca si temevano di più gli impatti di contaminazione dell’acqua che le emissioni fuggitive di CH₄. Oggi è chiaro che il settore oil & gas contribuisce in maniera significativa alle emissioni antropiche di questo gas serra. Recenti misurazioni effettuate da un jet appositamente attrezzato (MethaneAIR) e rilevate anche via satellite mostrano che le emissioni di metano provenienti dalle operazioni di estrazione di petrolio e gas negli Stati Uniti sono più di quattro volte superiori alle stime dell'EPA e otto volte superiori agli obiettivi dell'industria fossile.

Anche l’agricoltura fa la sua parte (insieme alle discariche che però sono sempre meglio regolate) contribuendo con la fermentazione derivata dalla coltura del riso e dalle emissioni enteriche del settore zootecnico. "Se le riducessimo, vedremmo un'ampia diminuzione delle concentrazioni atmosferiche", spiega Shindell. "Ma tagliare le emissioni provenienti dall'agricoltura in particolare è improbabile nel breve termine, e forse anche nel lungo termine." Quindi il target primario rimangono le emissioni fuggitive del settore energetico.  I ricercatori hanno osservato che i costi della riduzione delle emissioni di metano sono sensibilmente più bassi rispetto a quelli di altre iniziative di mitigazione climatica e che "sono necessari regolamenti giuridicamente vincolanti e una tariffazione diffusa", come accade in USA, per incoraggiare i tagli richiesti.

Un fenomeno a cascata

Le regioni fredde e asciutte dell'Artico contribuiscono all'inquinamento da metano più di quanto si pensasse in precedenza, illustra un altro articolo pubblicato il 18 luglio su Nature Communications che ha preso in esame le aree secche di permafrost chiamate "upland Yedoma Taliks" [i talik sono degli strati di suolo perennemente ghiacciati, ndr] che si trovano prevalentemente nella Siberia settentrionale, dove il disgelo del permafrost probabilmente accelererà la produzione di metano a causa della disgregazione del materiale organico da parte dei microbi nel suolo.

Lo studio ha rilevato che le emissioni annue di metano dei talik di Yedoma in fase di scongelamento sono quasi il triplo, ettaro per ettaro, di quelle delle zone umide del nord, molto più grandi di quanto attualmente previsto dai modelli climatici. Un allarme preoccupante, quanto ignorato: il permafrost mondiale contiene una quantità di carbonio tre volte superiore a quella attualmente presente nell'atmosfera, in una regione che si riscalda da tre a quattro volte più velocemente della media globale. Tant’è che questo fenomeno potrebbe aver contribuito all’accelerata di riscaldamento globale registrato negli ultimi anni che ha destato grande preoccupazione negli scienziati.

Attivisti, imprese, scienziati e politici dovrebbero rafforzare l’impegno per approvare un target ONU, vincolante, di riduzione delle emissioni di CH₄ per almeno il 45% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 2020) anche già a COP29. Una questione chiave per rallentare le concentrazioni di gas climalteranti in atmosfera e contenere tutti i fenomeni a cascata legati alle emissioni naturali del metano. Il Global Methane Pledge al momento è uno schema volontario e non vincolante ed esclude uno dei principali emettitori dal settore energetico, la Russia. Le azioni delle singole imprese sono fondamentali. Se la CO₂ ha un livello di complessità mastodontico, il metano è molto più facile da gestire. Anche se ancora una volta è una palla in mano ai giganti dell’oil & gas e dell’agrobusiness.

 

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Immagine: Envato