Tempo, complessità, resilienza. Sono i tre concetti chiave su cui si basano la salute e la sopravvivenza di qualsiasi ecosistema forestale. Tre caratteristiche correlate in una stretta catena di causa-effetto: serve molto tempo a una foresta per sviluppare il complesso tessuto di interrelazioni fra i vari organismi che la compongono, e quel tessuto sarà fondamentale per garantire la sua capacità di auto-rigenerazione e la sua resistenza di fronte a calamità naturali e cambiamenti climatici. Ma i tempi lenti della natura si scontrano con i ritmi frenetici dello sfruttamento produttivo, che impongono alle foreste strutture semplificate in nome dell’efficienza, e in barba alla resilienza.
Trovare un punto di equilibrio è sempre più urgente, visto che dalle foreste dipendono innumerevoli servizi ecosistemici, a partire dalla protezione della biodiversità e dalla mitigazione climatica. Ne abbiamo parlato con Miroslav Svoboda, capo del Dipartimento di Ecologia forestale dell’Università Ceca di Scienze della Vita (CZU) di Praga, studioso dei meccanismi di rigenerazione naturale ed esperto di dendrocronologia, la disciplina che studia il tempo degli alberi.
“Una foresta è molto più di un semplice insieme di alberi”, ha detto Suzanne Simard in un celebre TED Talk. Qual è la sua definizione di foresta?
Una foresta è un sistema complesso, composto da un’ampia gamma di specie diverse che vivono insieme in un unico luogo. Non ci sono certo solo alberi: si va dai microrganismi del suolo ai funghi, dalle specie vegetali agli animali. Silvicoltori e forestali tendono in effetti a considerarla meramente un insieme di alberi, ma la gestione di una foresta non può non tenere conto degli impatti sull’intero sistema e dell’interrelazione fra i vari organismi.
Quanto conta in questa definizione il concetto di simbiosi?
È un meccanismo fondamentale nella vita di una foresta. Alcune specie collaborano fra loro e gli studi più recenti hanno dimostrato che soprattutto gli alberi stringono relazioni simbiotiche con gli organismi del suolo: uno scambio che avvantaggia entrambi.
Non bisogna tuttavia commettere l’errore di idealizzare le foreste come ambienti pacifici in cui tutte le specie cooperano tra loro. C’è infatti molta competizione per la sopravvivenza: si tratta di luoghi in cui ogni individuo lotta per il suo spazio vitale e per la conquista delle risorse che gli sono necessarie. E il risultato di questa competizione è che a volte alcune specie soccombono.
Negli ultimi anni si assiste a un crescente interesse – sia nella ricerca scientifica che nell’immaginario collettivo – per quella che potremmo chiamare “intelligenza non-umana e non-animale” (basti pensare ai libri best-seller di Simard o Wohlleben sugli alberi, e di Sheldrake o Stamets sui funghi). Come descriverebbe l’intelligenza degli alberi?
Sarei molto cauto a parlare di “intelligenza” così come la intendiamo dal punto di vista umano, perché ancora una volta rischiamo di idealizzare la questione. Ci sono tuttavia sempre più studi e ricerche che vanno in questa direzione e che stanno dimostrando come effettivamente gli alberi siano in grado di reagire in molti modi diversi a una varietà di eventi. Quindi sicuramente si può dire che sono intelligenti nel modo in cui si adattano ai cambiamenti dell’ambiente circostante. Del resto gli alberi vivono sulla Terra da centinaia di milioni di anni e si sono evoluti per sopravvivere ai cambiamenti del clima terrestre, imparando ad adattarsi anche a condizioni estreme e incredibilmente dure per la vita. È così che mi piace definire la loro “intelligenza”.
Questa capacità di adattamento è in definitiva il cuore dell’ecologia forestale, cioè la disciplina di cui lei si occupa. Quali sono oggi i fattori che impattano di più sull’equilibrio degli ecosistemi forestali?
Oggi il cambiamento climatico è in genere additato come il fattore di maggior impatto sugli ecosistemi forestali in tutto il mondo, e i suoi effetti sono effettivamente molto gravi. Bisogna però rendersi conto che le conseguenze peggiori sullo stato globale delle foreste derivano dalle attività umane dirette. Ad esempio, in Europa abbiamo praticamente trasformato la maggior parte delle nostre foreste in “foreste gestite”, determinando così la loro composizione e aspetto futuri. E questo va a interagire con gli effetti del clima.
Faccio un esempio specifico. Nella Repubblica Ceca abbiamo avuto negli ultimi tre anni un grosso problema di infestazione di bostrico, che ha attaccato le foreste di conifere utilizzate per il legname. La diffusione di questo parassita è collegata alla siccità, e ovviamente tutti hanno parlato solo dei danni del cambiamento climatico. Non dovremmo dimenticare però le responsabilità dei silvicoltori, che hanno trasformato le foreste del Paese, generalmente composte da abeti rossi, querce, faggi e altre specie arboree, in foreste dominate da conifere. In pratica abbiamo creato le condizioni per la tempesta perfetta, rendendo gli ecosistemi molto più vulnerabili sia alle condizioni climatiche che all’attacco di parassiti.
Situazioni analoghe si stanno verificando in tutto il mondo. Trasformiamo le foreste obbedendo solo a una visione di produttività. Creiamo foreste “semplificate” con poche specie di alberi (quelle migliori per il legno) e una struttura meno intricata. Ma così gli ecosistemi diventano meno resilienti al cambiamento climatico e meno resistenti a eventi come siccità, incendi o infestazioni di insetti e parassiti.
È paradossale, se si pensa a quanto si parla oggi di rigenerazione degli ecosistemi. E invece non facciamo che indebolire il potere di rigenerazione naturale e “auto-guarigione” delle foreste. Cosa dovremmo fare allora per aiutarle a essere più resilienti?
Come dicevamo, gli alberi sono sulla Terra da milioni di anni e si sono evoluti per adattarsi al clima. Il problema è che l’attuale cambiamento climatico non ha precedenti per la velocità con cui sta avvenendo: in alcune regioni i mutamenti nel regime delle precipitazioni e nelle temperature sono così repentini che gli alberi non riescono a farvi fronte. E insieme al clima, anche il modo in cui le foreste sono state gestite in passato ha creato una situazione senza precedenti.
Nelle riserve naturali in Europa Centrale, invece, possiamo osservare il grande potere naturale di auto-guarigione delle foreste. Quando non sono modificate dall’uomo, riescono a riprendersi e rigenerarsi piuttosto facilmente anche dopo un’infestazione di bostrico, un incendio o una tempesta. E, anzi, il nuovo strato di alberi che ricresce dopo una calamità naturale è spesso più ricco di biodiversità e strutturalmente diversificato rispetto al precedente, il che lo rende anche più resiliente e resistente. Ma ci vuole del tempo. E di sicuro questa nuova foresta, dal punto di vista della produzione di legname, non sarà così efficiente come vorrebbero i silvicoltori. Questa è principalmente la ragione per cui in passato si sono ripiantate intere foreste: per avere le specie più produttive, una struttura più semplice da gestire e soprattutto per ottenere il legno il più velocemente possibile. Ora finalmente si comincia a capire che dare il tempo alle foreste di auto-rigenerarsi è positivo sia per la biodiversità che per la loro resistenza futura.
Ci sono tuttavia casi in cui le calamità naturali o le condizioni climatiche sono così pesanti da compromettere la capacità di auto-rigenerazione delle foreste, danneggiando non solo la produzione di legno, ma tutti gli altri servizi ecosistemici. In questi casi si parla di “aiutare” le foreste a rigenerarsi: se le specie autoctone non sono abbastanza resilienti, si pensa cioè di introdurre delle specie più resistenti. È in corso però un ampio dibattito su questo tipo di pratiche e io sarei molto cauto ad utilizzarle, visto che abbiamo già avuto brutte esperienze in passato. Introdurre specie non autoctone in un ecosistema è sempre un rischio. E anche se a volte può sembrare una buona idea e lo si fa con le migliori intenzioni, può trasformarsi in un incubo.
Insomma, meglio non interferire troppo.
Esatto. Si potrebbe pensare di usare queste tecniche solo per le foreste coltivate a scopi produttivi, ma vanno sempre compensate con aree in cui si lascia lavorare la natura secondo i suoi tempi. La diversificazione della gestione forestale è perciò, a mio parere, la via da percorrere in futuro.
Va però trovato un equilibrio anche dal punto di vista geopolitico. Altrimenti succede che, ad esempio, noi europei, per preservare le nostre foreste, andiamo a sfruttare le risorse forestali di altri Paesi, distruggendone l’ambiente. È una situazione molto complessa, ma personalmente credo che dovremmo applicare di più il principio del “think globally, act locally”.
Ha accennato ai servizi ecosistemici forniti dalle foreste. Oltre al legno e, ovviamente, all’ossigeno, quali sono gli altri?
Ci sono la regolazione del ciclo dell’acqua e del microclima, la protezione del suolo e della sua fertilità. Ci sono servizi “non materiali”, come il benessere che ci regala una passeggiata nel bosco, il sollievo dallo stress. C’è la protezione della biodiversità, visto che le foreste sono l’habitat di moltissime specie. E naturalmente c’è la mitigazione climatica, dal momento che le foreste agiscono globalmente come pozzi di carbonio, stoccando la CO2 nella loro biomassa.
È una gamma di funzioni molto ampia e complessa, e per questo è molto difficile gestire le foreste ed è necessario avere parecchie riserve naturali e aree protette per garantire la continuità dei loro servizi ecosistemici.
Certo, continueremo ad aver bisogno di legname, ma dobbiamo renderci conto che non è una risorsa illimitata e non possiamo spingerne incessantemente il consumo. Dovremmo stare più attenti agli usi che ne facciamo e cominciare a pensare al legno come a una risorsa che ha anche impatti ambientali negativi, sia in fase di coltivazione che di produzione, e non è carbon neutral.
È in effetti un punto che si tende a tralasciare: la narrazione dominante sottolinea solo gli aspetti di sostenibilità del legno.
Infatti. Il legno viene presentato in genere come una risorsa carbon neutral, ma non lo è, o almeno non per certi utilizzi. Idealmente lo si dovrebbe usare per fabbricare beni durevoli e non per prodotti monouso o che comunque hanno vita breve. E bruciarlo a scopi energetici dovrebbe essere l’ultima opzione, riservata peraltro solo al legname di scarto. Purtroppo però non è ciò che accade oggi. In alcuni Paesi, anche in Europa, si importa legname, si tagliano alberi e si piantano foreste solo per bruciarne la biomassa, addirittura ricevendo sussidi a questo scopo. Non è certo un utilizzo che si possa definire climate smart, soprattutto quando il legno viene trasportato da una parte all’altra del globo.
Parlando di neutralità carbonica, dal punto di vista dello stoccaggio di CO2, è più efficace una foresta vetusta o una giovane, magari ripiantata dopo un taglio?
È una questione molto complessa, su cui esistono moltissimi studi. Ma ciò che viene spesso dimenticato in questi dibattiti è la scala temporale.
Come esseri umani, abbiamo ancora 20 o 30 anni per cambiare radicalmente il nostro sistema di consumo e produzione e diventare carbon neutral. Ma se tagliamo una foresta, creiamo un debito di carbonio che potrà essere ripagato solo in 100 anni, o anche 150 o 200 se si tratta di una foresta tropicale, con alberi vecchi di 500 anni. E anche se ripiantassimo la foresta e la lasciassimo crescere, sarebbe comunque troppo tardi per compensare la CO2 che stiamo emettendo adesso.
In breve, il taglio di una foresta può effettivamente avere un bilancio di carbonio neutrale, ma solo nel lungo periodo. Nel breve periodo, invece, se preserviamo le foreste più mature, esse non solo non produrranno emissioni, ma continueranno a crescere stoccando carbonio per i prossimi anni.
A proposito di scala temporale, uno dei rami della sua ricerca ha proprio a che fare con il tempo degli alberi: la dendrocronologia. Di cosa si tratta?
Gli alberi, come sappiamo, crescono formando degli anelli. È un fenomeno tipico soprattutto della fascia temperata, dove in inverno la crescita si arresta creando così questa alternanza visibile nella sezione del tronco: in pratica, ogni anello corrisponde a un anno.
Gli anelli funzionano così come una sorta di memoria, che contiene informazioni sulle condizioni ambientali in cui l’albero si trovava in un dato momento: temperatura, clima, possibili condizioni di competizione nell’ambiente circostante. Tutto ciò può essere analizzato e misurato. Esistono diversi metodi per ricostruire, a partire dagli anelli, ciò che accadeva nel passato intorno all’albero, dalla quantità di pioggia alle calamità naturali. È affascinante e può aiutarci non solo a capire il passato, ma anche ad avere una migliore comprensione della situazione presente e in un certo senso a predire il futuro e ad attuare strategie di gestione più efficaci.
Preservare le foreste antiche significa quindi conservare anche una memoria storica importante.
Assolutamente sì, le foreste sono un patrimonio culturale ed è nostra responsabilità proteggerle anche per questo motivo. Altrimenti i nostri figli e nipoti ce ne chiederanno conto in futuro.
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Immagine: la foresta d’Arvière, sulle Alpi francesi (ph Giada Connestari)