La corsa all’idrogeno naturale è iniziata e l’Italia non rimarrà a guardare. Nelle giornate di giovedì 7 e venerdì 8 marzo all’Area di ricerca del CNR di Pisa è stato lanciato NHEAT (Natural Hydrogen for Energy trAnsiTion), un progetto finanziato da fondi PRIN-PNRR che prevede lo studio dell’esplorazione di idrogeno naturale in Liguria e in Lazio. Le due regioni sono caratterizzate da rocce serpentinitiche e rocce basaltiche molto ricche di minerali di ferro, che le rende un contesto ideale per trovare depositi di idrogeno naturale.

“Il nostro scopo è rispondere a una serie di domande aperte”, spiega a Materia Rinnovabile Chiara Boschi, responsabile scientifica del progetto capitanato dal CNR e al quale collaboreranno l’Università La Sapienza e l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. “Qual è il tasso di produzione di idrogeno di queste rocce? L’idrogeno è da considerare una risorsa rinnovabile per cui è fattibile uno sfruttamento a lungo termine? È possibile migliorare artificialmente la produzione? In Italia ci sono tutti gli ingredienti per la formazione di idrogeno naturale, ma manca ancora la ricetta per come trovarlo.”

Tra primi investimenti e promettenti ricerche sul campo, l’idrogeno gassoso rilasciato dalla crosta terrestre potrebbe diventare una delle fonti energetiche a zero emissioni più facili da sfruttare. Basta sapere dove cercare. 

Dove si trova l’idrogeno bianco

La comunità scientifica sa da tempo che nella crosta terrestre avvengono reazioni chimiche in grado di produrre idrogeno gassoso. I primi a testimoniarlo sono stati gli abitanti di Bourakebougou in Mali nel 1987: cercavano dell’acqua in un pozzo di 100 metri e hanno casualmente trovato idrogeno gassoso che, una volta bruciato, produce vapore acqueo. Dal 2012 l’azienda Hydroma cattura oltre 1.500 metri cubi di idrogeno al giorno. Il gas alimenta una piccola turbina che genera energia per i 1.500 abitanti del villaggio. L’azienda ha esteso la propria produzione perforando altri 24 pozzi nell’area circostante, trovando notevoli riserve di idrogeno. 

L'idrogeno geologico bianco, così viene chiamato dagli scienziati, si forma in vari contesti geologici. Il processo più comune è la serpentinizzazione delle rocce del mantello terrestre. “Idratate dall’infiltrazione dell’acqua, le rocce peridotiti diventato serpentiniti”, spiega Boschi. “In questo processo il ferro si ossida, rilasciando un elettrone che permette all'acqua di scindersi e formare l’idrogeno ( H2).” In sostanza queste rocce si alterano a contatto con l'acqua e ossidando il ferro rilasciano idrogeno sotto forma di molecola  H2.

La crosta terrestre non solo produce idrogeno attraverso l’ossidazione di rocce ricche di minerali di ferro, ma anche grazie la radiolisi dell'acqua: in sostanza l’energia prodotta dal decadimento radioattivo di alcuni elementi, come uranio e torio, contenuti in minerali delle rocce del mantello permette di scindere la molecola d'acqua formando idrogeno che può risalire fino alla superficie. 

Un altro luogo di possibile rilascio di idrogeno naturale sono i giacimenti di carbone. Nella regione carbonifera della Lorena (Francia), il Centre national de la recherche scientifique francese stima che ci possa essere un deposito da 250 milioni di tonnellate di idrogeno puro al 98%. 

Alla ricerca dell’idrogeno naturale

Non si sa ancora di preciso quanto idrogeno naturale ci sia sottoterra. Un certo clamore mediatico lo ha suscitato un recente annuncio della US Geological Survey durante il meeting annuale della American Association for the Advancement of Science a Denver (Colorado). Secondo l’istituto geologico americano, in tutto il mondo ci sarebbero depositi da circa 5,5 trilioni di tonnellate di idrogeno. Durante il meeting, il leader del progetto di ricerca Geoffrey Ellis ha dichiarato che la maggior parte dell’idrogeno è probabilmente inaccessibile, ma anche l’estrazione di una piccola percentuale “potrebbe soddisfare la domanda energetica globale, 500 milioni di tonnellate annuali circa, per centinaia di anni.” Molte riserve saranno troppo profonde o difficilmente raggiungibili per essere sfruttate, per esempio intorno alle sorgenti idrotermali dell’oceano. Ma, secondo Ellis, anche catturare una piccola frazione dell’idrogeno naturale disponibile assicurerebbe notevoli quantità di energia pulita. 

Negli Stati Uniti non si sono mossi solo gli istituti di ricerca nelle attività di esplorazione. Per esempio l’azienda Natural Hydrogen Energy ha già perforato un pozzo ricco di idrogeno nel Nebraska e secondo il CEO Viacheslav Zgonnik ci vorranno solo un paio d'anni prima di passare alla produzione commerciale. Lo scorso anno il fondo di investimento Breakthrough Energy Ventures di Bill Gates ha contribuito a parte del capitale investito totale (91 milioni di dollari) per il progetto di Koloma. La startup, con sede in Colorado, è alla ricerca di idrogeno naturale lungo la Midcontinent Rift, una faglia di 1.200 miglia che attraversa il Wisconsin e il Kansas. Koloma stima una produzione annua di 23 milioni di tonnellate. 

Guardando all'Europa, l'azienda spagnola Helios Aragon è pronta a lanciare il primo progetto continentale nel sito di Monzon, in Aragona. Le trivellazioni esplorative potrebbero già partire entro la fine di quest'anno, ma per vedere una produzione soddisfare la domanda locale si dovrà attendere ancora almeno 30 anni.

Gli impatti climatici delle fuoriuscite di idrogeno

Se per ora l’estrazione di idrogeno naturale è solamente in una fase esplorativa, la produzione di idrogeno come vettore energetico è in crescita, nonostante processi costosi e spesso ad alta impronta carbonica. Esistono diversi modi per produrlo: per separare le molecole H2 dall’acqua si ricorre all’energivora e dispendiosa idrolisi. Se nel procedimento viene impiegata energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili, allora l’idrogeno prodotto è etichettato come verde.

Un processo che rilascia CO₂ è, invece, l’estrazione dell’idrogeno (grigio) tramite metano. Se l’anidride carbonica generata viene poi catturata da sistemi di carbon capture and storage, l’idrogeno è considerato blu

Nel caso si dovessero verificare perdite significative durante la produzione, distribuzione e uso finale dell'idrogeno, queste emissioni avrebbero un impatto indiretto sul clima. “A differenza di altri gas a effetto serra, l’idrogeno è una molecola leggera che può influenzare la concentrazione atmosferica degli altri gas come metano e ozono troposferico”, fa notare a Materia Rinnovabile Paolo Cristofanelli, climatologo del CNR. “Troppo idrogeno in atmosfera ridurrebbe la quantità di radicale ossidrile, che è una molecola in grado di distruggere il metano.” Considerato come agente di pulizia dell’atmosfera, il radicale ossidrile limita quindi la presenza del metano in atmosfera, un gas climalterante 84 volte più potente dell’anidride carbonica. 

La fuoriuscita di idrogeno in atmosfera è anche un fenomeno geologico. Secondo Chiara Boschi, sebbene incomplete e ancora molto imprecise, le stime delle emissioni naturali di idrogeno dalla superficie terrestre si aggirano intorno ai 70 milioni di tonnellate all’anno. Considerando la leggerezza della molecola e la sua facilità di rilascio in atmosfera, le fughe di idrogeno dalla crosta terrestre saranno un aspetto da monitorare. Specialmente con l’inizio delle attività estrattive. 

 

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Immagine: Envato