Nei pressi del Santuario di Santa Rosalia, a pochi chilometri dal centro di Palermo, c’è un piccolo specchio d’acqua, un tipico stagno temporaneo mediterraneo, chiamato “Gorgo di Santa Rosalia”. Qui si riproducono, tra molte altre specie, il rospo smeraldino siciliano e il discoglosso dipinto. Questo Gorgo è però ben noto agli ecologi e ai limnologi di tutto il mondo non tanto per i due anfibi ma per uno scritto di uno dei padri della biologia evoluzionistica moderna, George Evelyn Hutchinson.
Nel 1958 Hutchinson ritrovò in questo stagno due specie di insetti acquatici appartenenti al genere Corixa, due specie che apparentemente avrebbero violato il principio di esclusione competitiva. Dopo aver passato qualche giorno a osservare la piccola zona umida e tutte le molte specie presenti, lo studioso scrisse uno degli articoli più famosi e citati delle scienze ecologiche: Homage to Santa Rosalia, or why are there so many kinds of animals?. Un articolo pubblicato sulla rivista American Naturalist nel 1959, in cui venivano presentati due tra i concetti più importanti dell’ecologia moderna, ovvero il concetto di nicchia ecologica e quello di biodiversità.
Importanza e declino delle aree umide
ll Gorgo di Santa Rosalia, eletto a santuario dell’ecologia, è un piccolo esempio di zona umida e un grande esempio della ricchezza di specie che questi ambienti racchiudono. Ambienti fondamentali alla riproduzione e diversità della vita, certo, che forniscono anche un'elevata quantità di servizi ecosistemici per l’umanità: dalla fitodepurazione, alla regolazione dei fenomeni idrogeologici, dall’abbondanza di risorse trofiche, alla protezione delle coste, alla fissazione del carbonio. Proprio su quest’ultimo punto il Global Biodiversity Outlook 2021 ha definito che le aree umide riuscirebbero a catturare il carbonio presente in atmosfera fino a 10 volte di più delle foreste (a parità di superficie), svolgendo un importante ruolo di contrasto ai cambiamenti climatici.
A oggi, però, si continua a parlare di un loro drammatico declino causato in primo luogo dalle attività umane: dal prelievo di risorse idriche per l’agricoltura intensiva all’uso di fitofarmaci, dall’urbanizzazione agli scarichi industriali. Su scala europea è arrivata in aiuto la Strategia sulla Biodiversità, che vorrebbe invertire l’attuale perdita di biodiversità e collasso degli ecosistemi. Ci sono alcuni punti delle nuove norme che interessano anche il ripristino delle aree umide. Tra queste: l’incremento della tutela delle aree e di corridoi ecologici importanti per la biodiversità fino a raggiungere il 30% del territorio protetto; il ripristino delle connessioni degli ecosistemi acquatici per 25.000 km di fiumi, la riduzione del 50% dei prodotti fitosanitari e la riduzione del 50% della perdita di nutrienti derivanti dai fertilizzanti.
L’impatto dell’agricoltura sulle zone umide
“L’uso di fertilizzanti e prodotti fitosanitari in agricoltura è ancora una grande minaccia per le zone umide e la biodiversità”, spiega a Materia Rinnovabile Susanna D’Antoni, focal point nazionale del panel tecnico-scientifico della Convenzione di Ramsar e responsabile sezione aree protette e pianificazione del territorio di ISPRA.
“Per far fronte a questa minaccia, nel 2014, ISPRA e l’allora MATTM avevano redatto il Piano d’Azione Nazionale (PAN) per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, un piano che oggi è in fase di revisione e che contiene delle misure specifiche per la riduzione o l'eliminazione dei prodotti fitosanitari maggiormente pericolosi per gli ecosistemi acquatici, con particolare riguardo per le zone umide di importanza internazionale riconosciute ai sensi della Convenzione di Ramsar. Il problema è che queste misure non sono obbligatorie e le Regioni non le hanno ancora attuate. Dato che esiste un forte nesso tra prodotti fitosanitari e degrado delle zone umide, è importante che nel prossimo futuro vengano recepite e messe in pratica le linee della strategia sulla biodiversità e che ci sia di pari passo una conversione dell'agricoltura.”
Una risorsa per l’avifauna
In Italia le zone umide d’importanza internazionale riconosciute e inserite nell’elenco della Convenzione di Ramsar sono a oggi 57, distribuite in 15 Regioni, per un totale di 73.982 ettari. Il Delta del Po, la litoranea di Sabaudia nel Lazio, gli stagni di Cabras e Sale ’e Porcus in Sardegna, le Saline Margherita di Savoia in Puglia, il Biviere di Gela e le Saline di Trapani in Sicilia, o ancora il lago di Orbetello in Toscana, sono tutte zone umide e insieme luoghi importantissimi per gli uccelli migratori, che trovano qui delle aree di sosta prima o dopo la grande traversata del Mare Mediterraneo, durante la migrazione post-riproduttiva o nel viaggio di ritorno verso i siti di nidificazione.
“Paludi, lagune, foci dei fiumi, stagni sono ambienti dove la risorsa acqua è fondamentale al fine di generare fonti trofiche. Queste sono aree di rifugio e siti idonei per la riproduzione di tantissime specie di uccelli selvatici e rappresentano una fonte di energia insostituibile durante i lunghi e faticosi viaggi”, spiega a Materia Rinnovabile Gianluca Congi, vicepresidente della Società ornitologica italiana. “Dati ISPRA non solo evidenziano che ben il 30% degli uccelli è legato alle zone umide, ma segnalano anche una situazione veramente critica per lo stato di conservazione delle specie legate alle zone umide. Il 40% si trova in stato ‘inadeguato’, il 19% ‘cattivo’, l’11% ‘sconosciuto’ e solo il 29% ‘favorevole’.”
La mappatura delle zone umide in Italia
A oggi in Italia si conoscono solo in parte lo stato di conservazione e il tasso di perdita delle zone umide presenti sul territorio, ma qualcosa sta cambiando. Un primo inventario era stato coordinato da ISPRA nel 2011, quando ogni Regione aveva raccolto dati sugli habitat umidi, ma senza che fossero istituiti degli standard comuni di scelta ed elaborazione degli stessi. Quello che ne risultò fu un inventario, sì, ma disomogeneo nello spazio e nel tempo.
“Come ISPRA a Ottobre abbiamo avviato una collaborazione nell'ambito di un progetto dell'ESA, l’Agenzia spaziale europea, per l’inventariazione di tutte le zone umide italiane attraverso i dati satellitari e i dati Copernicus”, ci spiega Susanna d’Antoni. “A fine lavoro potremmo così avere una mappatura omogenea e approfondita di tutto il territorio nazionale, che ci permetterà di portare avanti un monitoraggio costante dell’estensione e dello stato di salute delle aree umide italiane.”
E se anche i cittadini volessero essere parte attiva del recupero e ripristino di aree umide, MedWet (Mediterranean Wetlands Initiative) ha creato una nuova app, MedWetland Watcher, che consente a scienziati, tecnici e amanti della natura di contribuire alla conservazione della natura nel Mediterraneo segnalando le zone umide minacciate e bisognose di ripristino. Condividendo le proprie osservazioni, ciascun utente potrà segnalare la presenza di zone umide, fornendo informazioni utili alla conoscenza scientifica e all'avvio di azioni di tutela.
Immagine: Dave Hoefler, Unsplash