Come per tanti altri aspetti della civiltà mediterranea, anche per l’ingresso dell’olio di oliva nella nostra cultura gastronomica dobbiamo dire grazie agli antichi Romani. Furono loro a diffondere la coltivazione dell’ulivo in tutti i territori dell’impero fino al Nord Europa, a migliorare la produzione dell’olio e a classificarlo a seconda dei metodi di spremitura e della stagionalità. Erano a tal punto cultori dell’oro liquido, come lo chiamavano, da arrivare a esigerlo come forma di pagamento tributario.
L’olio, tuttavia, non è l’unico prodotto prezioso che si può ricavare dagli ulivi. Se pagare le tasse in sansa o nocciolini sarebbe parso quantomeno sconveniente a un antico cittadino Romano, oggi il valore di questi sottoprodotti della lavorazione delle olive è ampiamente riconosciuto, sia da un punto di vista scientifico che industriale. La questione è: come sfruttarlo?
I composti fenolici – ricchi di proprietà antiossidanti, antinfiammatorie, antimicrobiche – contenuti nella sansa e nelle foglie di ulivo potrebbero diventare materie prime pregiate per l’industria farmaceutica e nutraceutica, per i cosmetici e i mangimi. La sfida sarà traghettare un settore ancora molto ancorato alla tradizione verso un futuro di innovazione circolare, trasformando i frantoi in vere e proprie bioraffinerie multiprodotto.
Ci siamo addentrati nella visione futura di un’industria olivicola perfettamente circolare e integrata, capendo come funziona la produzione dell’olio, quali sono i punti critici da superare e quali le potenzialità da sfruttare, in questo articolo pubblicato da Circular Economy for Food, un progetto dell'Università di Scienze Grastronomiche di Pollenzo, per cui è stato originariamente scritto.
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