È possibile sostituire i fertilizzanti chimici con i batteri? È possibile utilizzare i microorganismi e i loro servizi per il suolo riducendo così l’impatto climatico delle sostanze sintetiche? Sì, spiegano alcuni ricercatori americani. A patto però di risolvere un problema logistico non da poco: “confezionare” i batteri stessi per preservarne l’integrità e trasformarli in un prodotto capace di essere spedito alle aziende agricole.

I batteri sono un’alternativa efficace

La produzione di fertilizzanti chimici è responsabile dell’1,5% circa delle emissioni mondiali di gas serra, rilevano i ricercatori del Massachussetts Institute of Technology (MIT), in una nota diffusa nelle scorse settimane. I batteri in grado di convertire l’azoto gassoso in ammoniaca, da parte loro, “potrebbero non solo fornire le sostanze nutritive di cui le piante hanno bisogno, ma anche contribuire a rigenerare il suolo e a proteggere le piante dai parassiti”.

Il problema, però, è che questi microorganismi “sono sensibili al calore e all’umidità, il che rende difficile la produzione su larga scala e la spedizione alle aziende agricole”. Per risolvere il problema i chimici del MIT hanno ideato un rivestimento metallorganico che protegge le cellule batteriche dai danni senza impedirne la crescita o la funzione. Scoprendo, come evidenzia uno studio, che questi batteri rivestiti migliorano il tasso di germinazione di una varietà di semi, tra cui quelli di mais.

Un rivestimento speciale

Secondo Ariel Furst, professoressa di ingegneria chimica al MIT e principale autrice dello studio, il rivestimento potrebbe rendere molto più facile per gli agricoltori utilizzare i microbi come fertilizzanti. Nel corso dell’indagine i ricercatori hanno creato 12 diverse “reti” per incapsulare lo Pseudomonas chlororaphis, un batterio che fissa l’azoto e che protegge le piante da funghi dannosi e altri parassiti.

I rivestimenti contengono due componenti – un metallo e una sostanza organica chiamata polifenolo – che possono auto-assemblarsi in un guscio protettivo.

“I metalli utilizzati per i rivestimenti, tra cui ferro, manganese, alluminio e zinco, sono considerati sicuri come additivi alimentari”, evidenzia la nota. “I polifenoli, che si trovano spesso nelle piante, includono molecole come i tannini e altri antiossidanti.” Grazie a questi componenti, le reti possono proteggere i microbi. In questo modo i batteri possono essere distribuiti molto più facilmente e con costi minori.

La ricerca

Il batterio esaminato può essere utilizzato come sostituto dei fertilizzanti ma si dimostra al tempo stesso piuttosto delicato. “È sensibile a fattori di stress, come la liofilizzazione e le alte temperature”, rileva infatti lo studio. L’impiego del rivestimento, tuttavia, si rivela efficace. Gli esperimenti dimostrano infatti che la rete protegge il batterio “dalla liofilizzazione, dalle alte temperature (50 °C) e dall’elevata umidità”.

I rivestimenti, in altre parole, si rivelano estremamente utili “contro i fattori di stress ambientale e rappresentano un passo critico per consentire la produzione e la conservazione di microbi delicati in condizioni non ideali”. La composizione delle reti, inoltre, “ha un impatto significativo sulla loro efficacia protettiva”.  In presenza delle composizioni più efficaci, infatti, “non si osserva alcuna perdita di vitalità per i microbi rivestiti nelle condizioni in cui le cellule di norma non potrebbero sopravvivere”. Lo studio, infine, dimostra che i microbi così protetti “migliorano del 150% la germinazione dei semi nel confronto con quelli trattati con lo stesso batterio fresco”.

Ridurre l’impiego dei fertilizzanti chimici

Ariel Furst, rileva ancora la nota, ha fondato una società chiamata Seia Bio per commercializzare i batteri rivestiti e utilizzarli su larga scala nell’agricoltura rigenerativa. La speranza è che il basso costo del processo di produzione contribuisca a rendere i fertilizzanti microbici accessibili ai piccoli agricoltori.

La possibilità di sostituire efficacemente i fertilizzanti chimici rappresenta ovviamente l’aspetto più rilevante. I prodotti tradizionali, infatti, sono realizzati con un processo ad alta intensità energetica e sono caratterizzati da un forte impatto in termini di emissioni. Al punto da costituire un serio ostacolo al raggiungimento della neutralità climatica. Il loro uso a lungo termine, inoltre, contribuisce al progressivo esaurimento della disponibilità di sostanze nutritive nel terreno. Un problema a cui si può rimediare ricorrendo alle pratiche di agricoltura rigenerativa per ripristinare il suolo.

 

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Immagine: Ricardo Tamayo, Unsplash

 

Articolo originariamente pubblicato su resoil.org