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Che piaccia oppure no, l’energia da fissione nucleare svolge un ruolo di primo piano nel percorso di decarbonizzazione globale. Secondo la Net Zero Road Map tracciata dall’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), per contenere il riscaldamento globale di origine antropica entro la soglia di 1,5° C la capacità nucleare dovrà raddoppiare entro il 2050.

L’energia da fissione si ottiene separando, tramite un neutrone, il nucleo di un atomo pesante come l’uranio in due nuclei più leggeri che liberano calore rilasciando altri neutroni. In un reattore nucleare questo processo innesca una reazione a catena che produce energia in modo continuo e costante. È considerata un fonte energetica a bassa impronta carbonica perché non prevede il consumo di combustibili fossili. Tuttavia non è rinnovabile, poiché l'uranio è un elemento radioattivo finito che si estrae dal sottosuolo.

Secondo la World Nuclear Association la domanda di combustibile nucleare aumenterà del 28% entro il 2030, superando le 80.000 tonnellate. Ma dove trovarlo? Attualmente quasi la metà (circa 21.000 tonnellate all’anno) viene estratto in Kazakistan, leader globale del settore. Poi ci sono Canada, Australia e Namibia che si spartiscono quote produttive minori.

Il Kazakistan radioattivo

Petrolio, gas, metalli strategici come l’uranio: le risorse naturali kazake possono trasformare l’ex repubblica sovietica in un hub energetico dal grande potenziale economico. Lo sa bene il presidente Qasym-Jomart Toqaev che ha indetto un controverso referendum per la costruzione della prima centrale nucleare post-sovietica. Messo a tacere il dissenso e dribblati i traumi nucleari del passato, il 6 ottobre 2024 il 70% dei kazaki ha detto sì. Cina, Francia, Russia e Corea del Sud hanno già bussato alla porta con delle offerte per entrare in un progetto che dovrebbe costare intorno ai 12 milioni di dollari.

Per generare elettricità a basso costo, Astana vuole sostituire il carbone – fonte inquinante e poco affidabile – con i reattori nucleari. Nonostante sia considerata energia “pulita” perché a basse emissioni climalteranti, l’energia da fissione, valutandone l’intero ciclo vita, causa enormi impatti ambientali e sanitari.

Ampie aree del Kazakistan, alcune delle quali utilizzate in epoca sovietica come siti per test nucleari, sono gravemente contaminate da rifiuti radioattivi che avvelenano l’ambiente e le persone. “Le scorie generate dai test nucleari e dall’industria mineraria si sono accumulate fino a raggiungere 237 milioni di tonnellate di rifiuti radioattivi e sappiamo con certezza che le infrastrutture di stoccaggio non sono sicure al 100%”, spiega a Materia Rinnovabile Kaisha Atakhanova, biologa e attivista che da anni si batte per maggiori controlli sui rifiuti radioattivi. “Il processo di decadimento dell’uranio è costoso da gestire e può durare decine di migliaia di anni.”

I territori contaminati si dividono tra Nord e Sud, ovvero tra le regioni settentrionali che ospitano gran parte degli impianti di stoccaggio dei rifiuti radioattivi e il Turkestan, terra di miniere e giacimenti. Le fasi a rischio contaminazione sono diverse: dal tradizionale processo di estrazione a cielo aperto al trasporto verso i siti di macinazione e lavorazione del minerale, fino allo stoccaggio dei rifiuti minerari radioattivi e non.

“L'estrazione di una tonnellata di uranio richiede la lavorazione di una quantità di minerale fra le 100 e le 10.000 tonnellate, che lascia residui tossici come torio e radio, un gas inodore considerato altamente pericoloso per la salute umana”, spiega Atakhanova. “Non si può certo parlare di energia pulita. Si dimentica che le centrali nucleari rappresentano solo una fase del ciclo di vita del combustibile nucleare.” Atakhanova, che dirige la ONG Social EcoFund, chiede scusa alle generazioni future quando pensa ai milioni di tonnellate di rifiuti radioattivi che erediteranno. Un fardello creato in epoca sovietica e mai risolto. Anzi, destinato ad aumentare con l'esplosione della domanda di energia nucleare.

Per ridurre gli impatti, ormai dal 1998, gran parte dell’industria mineraria kazaka adotta una tecnica estrattiva chiamata in situ leaching. Promosso come meno invasivo, più economico ed eco-friendly, il metodo consiste nell’iniettare nel sottosuolo soluzioni chimiche per dissolvere l’uranio dal minerale. La soluzione arricchita di uranio viene poi pompata in superficie.

Tuttavia, come evidenziano diversi studi scientifici (come quello realizzato nel 2023 dall’Institute of Radiobiology and Radiation Protection dell’Università di Astana), si tratta di una tecnologia potenzialmente molto inquinante sia per l’ambiente che per la salute umana. Durante l’iniezione si dovrebbero impermeabilizzare i pozzi in modo da evitare la contaminazione delle falde acquifere e del suolo. Ma le conseguenze sanitarie per chi vive vicino ai siti estrattivi mostrano un’altra realtà: la penetrazione nel suolo di acido solforico, nitrati e radionuclidi come uranio e altri isotopi radioattivi non è una rarità. Queste sostanze possono entrare nel corpo umano per inalazione, per via orale e attraverso la pelle, danneggiando diversi organi, il sistema riproduttivo, i polmoni e il sistema nervoso.

Arricchimento dell’uranio: il dominio della Russia

Una volta estratto e lavorato, l’uranio deve passare attraverso un processo di arricchimento che lo renderà un combustibile nucleare. Quasi la metà della capacità di raffinazione globale (44%) è controllata dalla Russia, da sempre partner commerciale influente (e ingombrante) delle attività minerarie kazake. Oggi l’asse Astana-Mosca gestisce buona parte dell'approvvigionamento nucleare occidentale.

Secondo un’analisi del think-tank investigativo Bellona, l’Europa nel 2023 ha acquistato combustibile nucleare russo per 686 milioni di euro, più del doppio rispetto al 2022. La lista della spesa statunitense ha toccato gli 1,2 miliardi di dollari lo scorso anno, con un aumento del 40% del volume delle importazioni. Tuttavia, l’acuirsi delle tensioni geopolitiche innescate dall’invasione russa in ucraina potrebbe cambiare velocemente queste rotte. Alle restrizioni di Washington sull’uranio grezzo russo, Putin ha risposto vietando l’export di quello arricchito. Ancora nessuna sanzione, invece, programmata da Bruxelles, che vorrebbe tagliare i ponti con Mosca sulla falsariga di quanto è accaduto con le fonti fossili.

“La rapidità con cui le aziende europee riusciranno a espandere le loro capacità di arricchimento è un fattore importante nel determinare la supply chain dei prossimi 5 o 10 anni”, spiega Alexander Nikitin, nuclear advisor di Bellona. Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria e Finlandia sono i paesi più legati al combustibile e alla tecnologia russa. Secondo Nikitin non ci sono ostacoli tecnologici, sarà decisivo capire le tempistiche entro cui l’azienda statunitense Westinghouse potrà produrre combustibile per i reattori di progettazione sovietica ancora operativi in Europa.

Ma oltre ad aumentare la capacità di raffinazione, l’Occidente avrà sempre più fame di materia prima. E nonostante le potenzialità minerarie dell’Australia e gli interessi francesi su alcuni dei ricchi giacimenti kazaki, il peso geografico ed economico russo rimane rilevante. Lo dimostra il fatto che l’azienda statale kazaka Kazatomprom ha siglato numerose joint venture con la società russa Uranium One, che detiene diverse quote di proprietà in sei giacimenti.

 

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Immagine: Shutterstock