Se è vero che transitioning away, fuoriuscita dalle fonti fossili, è stata la dicitura simbolo dell’ultima e storica COP28, un altro tormentone ‒ diventato mantra tra i lobbisti dell’industria fossile ‒ è stata la CCS (o CCUS), sigla traducibile con “cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica” (o “cattura, stoccaggio e utilizzo dell’anidride carbonica”). Si tratta di un variegato set di complesse tecnologie applicabili alla produzione di elettricità da fonti fossili e alle cosiddette industrie hard to abate ‒ cioè difficili da decarbonizzare ‒ come l’industria siderurgica e cartaria.
Il loro compito è catturare le molecole di CO₂ dai camini industriali evitando che vadano in atmosfera, separarle dal resto dei fumi contenenti per lo più azoto e vapore acqueo e attraverso delle pipeline portarle in condizione super critica ‒ con una densità simile a quella di un liquido e con la viscosità di un gas ‒ verso i siti di stoccaggio.
I dubbi sulla CCS
Secondo l’IPCC quasi tutti gli scenari di decarbonizzazione allineati al target di contenimento delle temperature medie globali entro 1,5°C al 2100 richiedono l’impiego di tecnologie CCS. Tuttavia, come sostengono diversi think tank, questa soluzione non può rappresentare la panacea della mitigazione climatica. Primo perché non è stato ancora delineato un chiaro perimetro di utilizzo industriale: quali sono i settori le cui emissioni sono considerate effettivamente abbattibili dalle tecnologie CCS?
L'industria oil and gas propone di usarla anche per decarbonizzare la produzione di energia elettrica ‒ che vorrebbe dire continuare a estrarre e consumare combustibili fossili (anche il carbone) su larga scala e non centrare gli obiettivi climatici. Un altro grande punto interrogativo riguarda la sostenibilità finanziaria di questi progetti. Secondo un report pubblicato dall’università di Oxford, i costi delle tecnologie CCS non sono affatto diminuiti negli ultimi anni. Se nel percorso di neutralità carbonica da raggiungere entro il 2050 faremo troppo affidamento su cattura e stoccaggio di CO₂, installare la tecnologia su vasta scala ci costerebbe 30 trilioni di dollari in più rispetto a un percorso che consideri solo alcuni settori.
“Queste tecnologie dovrebbe essere applicate solo alle industrie hard to abate ‒ ha detto alla COP28 Teresa Ribera, vice prima ministra spagnola ‒ Per quanto riguarda la produzione di elettricità, sappiamo che esistono soluzioni molto più intelligenti e veloci per decarbonizzare.”
Come funziona lo stoccaggio geologico
Se per la fase di cattura di CO₂ basterebbe limitare il perimetro d’azione a poche applicazioni evitando di millantare un fantasioso sistema energetico che promette di catturare tutto ciò che emette, ben più complesso è individuare i luoghi idonei a immagazzinare l'anidride carbonica catturata.
Lo stoccaggio onshore, opzione esplorata soprattutto in Nord America, consiste nell’iniettare CO₂ nei giacimenti di idrocarburi ormai esausti, in passato perforati tramite fracking, tecnica inventata già agli inizi del Novecento per estrarre gas naturale e petrolio. Questo tipo di stoccaggio è oggetto di studio da parte dell’Istituto geologico canadese perché potrebbe indurre preoccupanti fenomeni sismici.
L’altra possibilità è immagazzinarla in mare aperto (offshore), a più di 800 metri di profondità, in rocce sedimentarie ad alta porosità che presentano spazi interstiziali sufficienti per trattenere la CO₂ in modo permanente. Queste formazioni chiamate “rocce serbatoio” devono essere isolate da uno o più strati naturali di roccia impermeabile (cap rock), che ha il compito di trattenere la CO₂, grazie alla sua impermeabilità, e di impedirne la migrazione al di fuori del sito di stoccaggio.
“Per identificare un buon serbatoio si incrociano due tipi di dati ‒ spiega a Materia Rinnovabile Valentina Volpi dell'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) ‒ quelli sismici acquisiti dalla propagazione delle onde acustiche del sottosuolo e i dati che provengono dalle caratteristiche fisiche delle rocce. Ogni sito ha le sue peculiarità geologiche, quindi le performance di stoccaggio variano a seconda del caso.”
I problemi dello stoccaggio di CO₂ in Europa
Attualmente in Europa solo il gigante petrolifero novergese Equinor possiede due impianti (Sleipner e Snøhvit) che separano l’anidride carbonica dal gas prodotto. Ogni anno Equinor afferma di catturare 1,8 milioni di tonnellate di CO₂, per un totale di 26 milioni di tonnellate accumulate finora. Tuttavia un report del think tank Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA) ha messo in discussione le performance dei due depositi citando alcune “sorprese geologiche”. Nell’impianto Sleipner, dopo tre anni di attività, la CO₂ immagazzinata è migrata rapidamente di 220 metri verso l’altro, rivelando la presenza di uno strato geologico precedentemente sconosciuto che sta fortunosamente mantenendo la CO₂ intrappolata.
Nel caso di Snøhvit, invece, dopo solo 18 mesi dalle prime iniezioni avvenute nel 2008, la CO₂ è migrata in un’area precedentemente non identificata dagli ingegneri. Lo sviluppo inaspettato di Snovhit ha costretto Equinor nel 2016 a cercare nuove aree di stoccaggio di CO₂ più efficienti investendo oltre 225 milioni di dollari.
“Mentre l’industria del petrolio e del gas è abituata a gestire l’incertezza nell’esplorazione e nella produzione, i rischi si moltiplicano quando si tenta di immettere qualcosa come la CO₂ nel sottosuolo”, ha affermato l’autore del report di IEEFA Grant Hauber. Un ricercatore norvegese che ha collaborato al progetto Sleipner conferma che ci sono stati dei piccoli intoppi durante il percorso ‒ che per altro Equinor ha sempre regolarmente riportato ‒ ma nel complesso i due impianti hanno avuto un’eccellente regolarità.
Il nuovo polo di stoccaggio di CO₂ di ENI a Ravenna
Il settembre scorso le oil and gas company ENI e SNAM hanno presentato quello che sarà il serbatoio di CO₂ più grande al mondo. A partire da quest’anno l’impianto inizierà a catturare CO₂ dalla centrale di trattamento di gas naturale a Ravenna con l’obiettivo di convogliare e iniettare 25.000 tonnellate nel vicino giacimento esaurito di Porto Corsini.
“La stima della capacità di stoccaggio totale dei giacimenti [esauriti, ndr] dell’Adriatico è superiore ai 500 milioni di tonnellate di CO₂ ‒ ci scrive ENI in una mail ‒ Questa stima è ottenuta da un’analisi delle caratteristiche dei giacimenti che abbiamo maturato attraverso decenni di attività produttiva.” Dal 2026, la compagnia petrolifera punta a stoccare circa 4 milioni di tonnellate di CO₂ per decarbonizzare le industrie hard to abate presenti nell’area di Ravenna e del Nord Italia.
Secondo il modello teorico sviluppato da The European House-Ambrosetti, sarà possibile stoccare circa 300 milioni di tonnellate di CO₂ entro il 2050, pari a circa quattro volte le emissioni annuali della Regione Lombardia.
Come individuare il sito giusto
“Gli acquiferi salini sono i serbatoi geologici che la letteratura indica come i più promettenti ‒ dice Volpi ‒ Sono molto profondi e le rocce hanno elevata porosità. I giacimenti di idrocarburi sono certamente una soluzione percorribile, ma spesso le aziende che li sfruttano non rendono pubblici i dati, quindi solo loro conoscono le performance.”
ENI ci spiega che prima di individuare i giacimenti adatti allo stoccaggio, ci sono studi e simulazioni che si avvalgono anche della potenza di calcolo dei moderni supercomputer. Inoltre nei laboratori vengono eseguiti campionamenti di roccia per capire il comportamento della CO₂ una volta iniettata.
Una normale attività sismica non dovrebbe andare a compromettere la capacità di contenimento dell’anidride carbonica, che viene assicurata grazie alla roccia di copertura (cap rock). Questa, nel caso specifico dei giacimenti esauriti, viene valutata come sicura perché ha svolto la stessa funzione tappando il gas per decine di milioni di anni.
I costi della CCS e la leva dell’ETS
Nonostante siano trascorsi decenni dall’introduzione di modi per catturare e stoccare l’anidride carbonica, l’ostacolo predominante è stato sempre rendere queste soluzioni economiche e scalabili. Nel 2009, la Commissione Europea lanciò lo European Energy Programme for Recovery con un budget di 1,6 miliardi di euro destinato a finanziare progetti di CCS. Un altro fondo da 2,1 miliardi di euro fu creato dalla vendita di 300 milioni di quote di emissioni: tutto si concluse con un nulla di fatto. Oggi con l’ambiziosa proposta del Net Zero Industry Act, la Commissione Europea ci riprova fissando un obiettivo annuale di iniezione di CO₂ di 50 milioni di tonnellate entro il 2030 e procedure di autorizzazione più snelle.
Dopo anni di progetti falliti e ostacoli burocratici, uno dei driver che potrebbe rendere economicamente appetibile gli investimenti in impianti CCS è l’Emission Trading System (ETS), un meccanismo all’interno del quale le aziende europee dei settori più inquinanti ricevono quote gratuite di emissioni. Se superano i limiti annuali di emissioni consentite devono acquistare quote aggiuntive sul mercato. Il valore medio delle quote si aggira circa sugli 85€ per tonnellata, ma le previsioni indicano un aumento significativo che già entro il 2030 potrebbe toccare i 115-120€/tonnellate di CO₂
Il costo totale che un'azienda deve sostenere per tutto il processo dalla cattura al trasporto e allo stoccaggio finale della CO₂ può variare secondo l'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA) tra i 70 e i 140€ a tonnellata, a seconda delle diverse condizioni di cattura e distanza di trasporto. ENI stima che il prezzo di cattura e stoccaggio previsto per l’hub di Ravenna risulti competitivo rispetto ai costi per le quote ETS.
L’universo delle tecnologie CCS è troppo ampio per essere meramente etichettato come greenwashing, oppure venduto come soluzione magica che ci toglierà dai guai. Ci sono diversi fattori da tenere in considerazione, forse troppi per darne una valutazione generica. Ma sicuramente di CCS e CCUS si continuerà a parlare sempre di più negli anni a venire.
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