Venerdì 11 ottobre si è conclusa la dodicesima edizione del Salone della CSR e dell'innovazione sociale. L'evento, presso l'Università Bocconi di Milano, ha visto la partecipazione di oltre 5.000 persone, con 500 relatori e più di 270 organizzazioni tra aziende, istituzioni e realtà non profit, confermandosi tra i più importanti spazi di confronto nel panorama italiano. Quest’anno il tema scelto per i tre giorni di evento è stato “sfidare le contraddizioni”.

Oltre a transizione energetica, filantropia strategica, equilibrio tra profit e no profit, durante il Salone il leitmotiv non poteva che toccare la normativa europea, vista l’evoluzione della responsabilità sociale d’impresa alla luce di direttive come la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD).  “È importante ricordare che nei momenti di maggior criticità nascono soluzioni innovative. Ma è necessario l’impegno di tutti, un’azione plurale, un continuo confronto tra gli stakeholder”, si legge nel manifesto di questa edizione. Perciò, durante il Salone, abbiamo scelto di raccoglierne delle voci, per raccontare alcuni dei nodi più critici di questa transizione.

Perché parlare di sfida alle contraddizioni?

“Dietro la sostenibilità c’è una complessità che rende difficile, a volte, per le aziende comprendere appieno cosa significhi essere sostenibili”, spiega a Materia Rinnovabile Francesco Perrini, Associate Dean for Sustainability presso la SDA Bocconi School of Management e membro del comitato scientifico del Salone della CSR. “Essere sostenibili significa affrontare sfide a tutto campo, molte delle quali sono interconnesse: la sfida del cambiamento climatico, la transizione energetica, la decarbonizzazione, l’economia circolare, la scarsità delle risorse. Molti di questi aspetti sono collegati alle persone, perciò è fondamentale includere il capitale umano, le relazioni con le comunità, il management, i giovani e così via. Altri aspetti riguardano l’agire in modo trasparente, con etica, affrontando temi come l’anticorruzione.”

Dopo “sfida”, il secondo concetto chiave nella transizione ecologica riguarda la parola “contraddizione”, intesa come scelta tra due opzioni ugualmente desiderabili ma tra loro contrastanti. “In realtà, più che di contraddizioni, parlerei di trade-off, perché siamo stati abituati a vedere le cose come contrapposte. Il famoso trade-off tra profitto e sostenibilità, però, non esiste davvero. In futuro, per creare valore un’azienda dovrà essere sostenibile; al contrario non potrà generare valore. Questo perché non avrà accesso alle risorse finanziarie, al supporto delle banche, ai rating, alle filiere sostenibili. Motori fondamentali di diffusione e sviluppo. Infine, non dobbiamo più discutere su posizioni ideologiche contrapposte – destra contro sinistra, bianco contro nero – ma puntare tutti nella stessa direzione: quella di affrontare la sfida principale, ovvero azzerare le emissioni di CO₂ e degli altri gas serra dall’atmosfera, per evitare i rischi crescenti legati al cambiamento climatico.”

Dalla transizione energetica al green public (e ora private) procurement

“È infatti dalla contraddizione tra un tempo sempre uguale e un tempo ignoto, quello della crisi climatica, tutto da costruire, su cui dobbiamo ragionare per fare in modo che la transizione ecologica ed energetica, trovi la velocità giusta per trascinarci fuori, o quantomeno limitare gli effetti travolgenti a cui probabilmente andremo incontro”, commenta a Materia Rinnovabile Barbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia, a seguito del suo intervento durante il panel La transizione energetica: quali criticità nascono dai territori?.

Un tema quantomai attuale dopo il blocco alle autorizzazioni alle rinnovabili in Sardegna e alla crescita del fenomeno NIMBY rispetto alla produzione di biometano. “In questo, la responsabilità diffusa delle imprese, delle amministrazioni, delle associazioni e dei cittadini deve trovare una sintesi per governare il disagio ambientale e sociale nonché economico che potrebbe derivarne pianificando e aiutando chi non ha gli strumenti necessari a comprenderne la portata epocale e ad accettare la sfida della sostenibilità.”

Un secondo settore dove la responsabilità sociale può avanzare è l’IT. “Finora, grazie anche all’impulso normativo della Commissione europea, sono state soprattutto le organizzazioni pubbliche a implementare il green public procurement. Organizzazioni che ora si stanno muovendo anche verso il social procurement. L’Italia è tra i primi paesi in Europa ad adottarlo, perché è obbligatorio e ci sono i CAM (Criteri ambientali minimi) per moltissime categorie di prodotti, rendendoci pionieri in questo ambito”, dichiara a Materia Rinnovabile Chiara Scalabrino, Head Italy & Spain, IT Sustainable Procurement support presso TCO Development, organizzazione senza scopo di lucro appartenente al sindacato svedese che da 30 anni sviluppa una certificazione di sostenibilità per PC, monitor, notebook, tablet, smartphone.

“Adesso anche il settore pubblico sta guardando più da vicino la sua supply chain, non solo per iniziative personali, ma soprattutto grazie alle normative che stanno arrivando, che coinvolgono non solo gli acquisti pubblici, ma anche quelli privati. C’è molto che si può fare. Noi mettiamo insieme criteri e processi condivisi su larga scala, combinando la scienza, le normative, i desideri dei brand, le procedure e le possibilità offerte dai produttori.” Secondo Scalabrino, il punto centrale resta però definire quali sono i criteri più rilevanti, quelli che permettono di fare progressi concreti in termini di sostenibilità. “Per esempio, oltre a quelli citati prima, possiamo includere criteri sociali come le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche e l’uso di sostanze chimiche per la pulizia. Oppure, possiamo considerare l’adesione a iniziative per il sourcing responsabile, come quelle relative ai conflict minerals. Stiamo andando oltre la semplice impronta di carbonio: ci stiamo muovendo verso una certificazione che analizza l'intero ciclo di vita del prodotto”.

Dalla “vecchia” responsabilità sociale di impresa alla nuova e globale CSRD

Per gli addetti ai lavori ormai è noto. Nata storicamente come un approccio qualitativo alla sostenibilità, la responsabilità sociale di impresa (in inglese Corporate Social Responsibility, CSR) è ormai in evoluzione. Attraverso la Corporate Social Responsibility Directive (CSRD), L’Unione Europea ha infatti introdotto per un numero sempre più esteso di aziende obblighi di rendicontazione del proprio impatto ambientale, sociale e di governance lungo l’intera filiera. Si è iniziato con aziende europee, prima quelle con almeno 500 dipendenti. Dal 1° gennaio 2025 si passerà poi a quelle con 250 dipendenti e successivamente anche le piccole e medie imprese quotate in borsa saranno progressivamente coinvolte in questo processo di sostenibilità.

“Alla fine, persino le aziende extraeuropee che importano o vogliono importare in Europa, e che fanno parte della filiera, dovranno adeguarsi”, continua Perrini. “Un numero enorme di imprese si impegnerà quindi seriamente nella sostenibilità, misurando quantitativamente i propri impatti, come ad esempio le emissioni di CO2. Questo percorso, che parte quest’anno e prosegue fino al 2030, punta a raggiungere l’obiettivo del net zero entro il 2050 in Europa.”

Secondo Perrini, questo approccio ha già avuto un impatto a livello globale. “Contrariamente a quanto si dice, non c’è un blocco normativo, ma anzi un fermento. Nel Regno Unito vengono applicate le stesse normative europee già trasformate in legge, e negli Stati Uniti la SEC ha richiesto alle grandi multinazionali di rendicontare il rischio climatico. Anche la Cina ha peraltro reso obbligatorio per le principali borse – Pechino, Shanghai e Hong Kong – l’adozione delle normative europee. La sostenibilità non solo migliorerà i diritti umani e ambientali, ma eliminerà anche la concorrenza sleale. Chi non rispetta i diritti umani e l’ambiente è infatti in grado di competere sul prezzo, poiché sostiene costi inferiori.”

Due diligence, per CSDDD resta il nodo tracciabilità e monitoraggio

E rispetto alla CSDDD, a che punto sono le imprese italiane? “La due diligence in ambito ambientale e sociale è uno dei temi emergenti più rilevanti in Europa, poiché introduce un approccio alla sostenibilità orientato alla gestione del rischio. Questo processo spinge le aziende a includere nelle proprie strategie l'identificazione e la gestione degli impatti, reali o potenziali, lungo tutta la catena del valore”, commenta a Materia Rinnovabile Martina Rogato, Founder presso ESG Boutique. "Molte imprese hanno iniziato a valutare il proprio impatto partendo dall'ascolto degli stakeholder chiave. Tuttavia, permangono numerose sfide, in particolare per quanto riguarda la tracciabilità e il monitoraggio, soprattutto nei paesi dove si delocalizza per ridurre i costi della manodopera. È cruciale sviluppare spazi di dialogo multistakeholder, per favorire la condivisione di buone pratiche e soluzioni efficaci”.

Rispetto a questo ultimo, dal Salone 2024 emerge la crescente importanza del ruolo delle ONG, soprattutto fuori i confini europei, là dove spesso i diritti dei lavoratori e la tutela ambientale sono meno garantiti. Le ONG, infatti, giocano un ruolo chiave nel promuovere trasparenza e responsabilità sociale, monitorando le condizioni delle catene di fornitura e contribuendo a colmare le lacune normative. Lo spiega a Materia Rinnovabile Federica Masi, responsabile tematica diritti umani di COSPE, associazione di cooperazione internazionale laica e senza fini di lucro attiva in 24 paesi.

“Operiamo nella filiera dei diritti umani sostenendo i rights holders [portatori di diritti, nda] nel difendere e rivendicare i propri diritti verso i duty bearers [portatori di doveri, nda]. […] La metodologia di COSPE è basata sull'empowerment della società civile e delle comunità locali, ponendo al centro il rafforzamento delle loro capacità di riconoscere e rispondere alle violazioni e alle barriere strutturali per il riconoscimento e godimento dei loro diritti. Questo significa anche non applicare approcci tecnici neutrali, ma promuovere l'empowerment tenendo conto dei contesti in cui operiamo. Per rispettare il principio do not harm, i rischi e le capacità dei difensori e delle difenditrici, delle comunità e delle organizzazioni locali vengono analizzati con iniziali valutazioni partecipative ed eventualmente sostenuti con piani strategici istituzionali e moduli formativi adattati (Transformative Capacity Building) per consentire un'esposizione sicura dei membri delle organizzazioni e comunità locali, prevenendo o mitigando i rischi.”

 

Immagine: Giorgio Kaldor