L’industria della moda va rigenerata attraverso innovazione e pratiche circolari. È questo l'appello lanciato il 24 ottobre durante la prima delle due giornate del Venice Sustainable Fashion Forum, summit organizzato da Sistema Moda Italia, The European House – Ambrosetti e Confindustria Veneto Est. Anche quest’anno è la Fondazione Cini, sull’Isola di San Giorgio di Venezia, città candidata a capitale mondiale della sostenibilità, a ospitare la terza edizione del forum. L'evento riunisce istituzioni, associazioni di settore come Euratex ed Ellen MacArthur Foundation, e protagonisti del settore, dalle realtà di filiera ai gruppi globali come LVMH Métiers d'Arts e Diesel. Nella seconda giornata è invece atteso l'intervento di Peter Pernot-Day, responsabile per gli affari strategici e societari per il Nord America e l'Europa del colosso cinese del fast fashion Shein.
Il focus della prima mattinata del Forum è però sulla 3ª edizione del report Just Fashion Transition 2024, l’Osservatorio permanente di TEHA sulla transizione sostenibile nei settori chiave della moda, tra cui abbigliamento, calzature e pelletteria. Un documento che evidenzia ritardi nel raggiungimento dei target di decarbonizzazione. “I venti non sono favorevoli, sia per una congiuntura economica avversa, sia per l’addensarsi di nuovi elementi di burocrazia su qualcosa che non dovrebbe mai mettere in discussione la crescita: la certezza del diritto”, ha dichiarato dal palco Sergio Tamburini, presidente di Sistema Moda Italia, anticipando nel discorso inaugurale alcuni risultati dello studio. “Vale per un tema come il credito d’imposta sulla ricerca e l’innovazione e vale per la trasparenza garantita da contratti già esistenti e diventato ora un onere a carico della filiera. Sistema Moda Italia è in prima linea con le istituzioni e l’Europa per la tutela di un settore cruciale per la manifattura nel mondo e per promuovere una rigenerazione circolare in cui le aziende hanno investito anticipando il quadro normativo.”
Just Fashion Transition: i vantaggi dell’azione
I dati della terza edizione del report Just Fashion Transition mostrano che l’industria della moda fatica a tenere il passo con obiettivi di riduzione delle emissioni. Negli ultimi sei anni, le catene del valore europee hanno sì disaccoppiato la crescita economica dalla CO₂, ma non in linea rispetto gli obiettivi climatici vincolanti del Fit for 55. “Stiamo riducendo l’intensità carbonica per euro venduto del 9,7% all’anno, il che non è affatto male, ma rispetto agli obiettivi fissati per il 2030 siamo in ritardo di otto anni”, spiega a Materia Rinnovabile Carlo Cici, Partner & Head of Sustainability Practices di TEHA e primo firmatario dello studio. “Di fronte a un ritardo bisogna accelerare, e ci sono due opzioni: o si investe di più oppure si riduce la produzione.” TEHA ha analizzato i bilanci di oltre 2.900 aziende italiane e le prestazioni di sostenibilità di più di 500 realtà, tra retailer globali, grandi gruppi europei e aziende della filiera italiana. Inoltre, ha condotto un'indagine sulle aspettative del mercato basata su un campione di oltre 26.000 consumatori a livello globale.
“Stimiamo che il costo degli investimenti [tra 24,7 e 29,1 miliardi di euro entro il 2030, nda] sia un ottavo rispetto alla perdita di ricavi che il settore subirebbe dal non investire in decarbonizzazione”, continua Cici. “Dal punto di vista economico, quindi, agire è estremamente vantaggioso. L’inazione, in realtà, non viene neanche presa in considerazione. Comprendo che il settore dica di essere in crisi, con poche risorse disponibili, e che quindi sia difficile investire ulteriormente. Questo è molto ragionevole, ma nei processi decisionali, sia a livello governativo sia aziendale, non stiamo tenendo conto che oggi spendiamo 50 miliardi l’anno per affrontare l’impatto del cambiamento climatico, secondo i dati dell’Agenzia europea dell’ambiente. Una cifra che potrebbe salire a mille miliardi entro il 2100, rendendo il sistema insostenibile.”
Effetto rebound per il second hand
Come ricorda lo studio TEHA, le 34 grandi aziende europee del settore che stanno riducendo le proprie emissioni a una velocità doppia rispetto a quella richiesta dalla Fit for 55 dimostrano però che la decarbonizzazione è possibile. D’altro canto lo studio evidenzia un ritardo significativo per il resto del settore. Inoltre, mentre sul clima si stanno facendo progressi, tra le 100 più grandi aziende EU solo 7 sono trasparenti sul salario minimo e 28 non pubblicano ancora un bilancio di sostenibilità. Infine, l'integrazione delle performance ESG nella retribuzione variabile dei dirigenti è una pratica diffusa solo nel 25% delle aziende, a differenza di altri settori in cui tale quota supera il 90%.
In questa fase, sembra ridotto il ruolo dei consumatori, che percepiscono che imprese e cittadini stanno già facendo abbastanza per la sostenibilità, mentre è compito dei governi guidare il cambiamento necessario. “Le persone hanno ben presente il tema della sostenibilità nel proprio mindset e sono consapevoli degli impatti ambientali della moda”, continua Cici. “Il consumatore non ha alcun ruolo attivo e non partecipa, anche perché in Europa e in Cina, in particolare, i consumatori non hanno capacità di spesa. I giovani, in particolare, dispongono di un reddito inferiore, ma non dimostrano comunque una mobilitazione concreta nelle scelte di acquisto”, mentre i boomer si trovano di fronte a informazioni complesse e insufficienti. Se il settore non investirà adeguatamente, si prevede che i consumatori europei dovranno rinunciare a 21 capi di abbigliamento pro capite entro il 2030. Poi, nonostante il second-hand sia visto come un'alternativa sostenibile al fast fashion, l'effetto rebound ne sta riducendo i benefici: per ogni nuovo capo evitato, i consumatori acquistano in media 1,23 capi usati.
In Europa regole forti ma incomplete
Secondo lo studio TEHA, la competitività e il processo decisionale delle imprese nel settore della moda sono minacciati da un contesto normativo fortemente improntato alla regolamentazione, ma ancora incompleto. L'Unione Europea punta ad accelerare la transizione attraverso la regolamentazione, ma la piena attuazione delle politiche per l'industria della moda non sarebbe prevista prima di cinque anni. Ad esempio, nonostante la Commissione europea già promuova il recupero dei rifiuti e la rendicontazione dei prodotti invenduti, la distruzione continua a essere un metodo comune di smaltimento. Ogni anno, tra 264.000 e 594.000 tonnellate di prodotti tessili vengono distrutte, rappresentando il 4-9% del mercato. Sebbene fino al 79% dello stock invenduto venga recuperato, solo il 57% dei resi online è gestito in modo simile, con costi di trattamento che possono arrivare al 55-75% del prezzo al dettaglio.
La revisione della Direttiva quadro sui rifiuti del 2023 introduce poi un nuovo schema di responsabilità estesa del produttore (EPR), che tassa i brand in base all'ecodesign per promuovere durabilità e riciclabilità. In Italia, nonostante l'implementazione di sistemi di raccolta differenziata per i prodotti tessili, solo 3 città su 4 hanno strutture adeguate. Il potenziale di raccolta effettivo è di 2,7 kg pro capite, rispetto ai 23 kg di prodotti immessi sul mercato ogni anno.
Manca la leva finanziaria, specialmente a supporto delle PMI
Il settore finanziario europeo non ha ancora tutte le leve per essere il motore della transizione europea nella moda. Senza un adeguato sostegno e un quadro normativo che faciliti l'accesso ai fondi sostenibili sui mercati dei capitali, la transizione rischia di essere sottofinanziata, ampliando le disuguaglianze soprattutto tra le PMI, che oggi rappresentano quasi il 98% dell'intero settore. A oggi, solo il 35% degli investimenti dedicati alla transizione delle PMI europee è stato sostenuto da finanziamenti esterni, e solo il 16% di questi si qualifica effettivamente come "sostenibile". “C’è sicuramente un tema legato agli investimenti privati, ma quello che vedo più problematico è l'investimento pubblico. Ci sono nuovi temi, come la difesa, che assorbiranno risorse. La proposta di Draghi [di investire per la competitività europea, nda] per ora resta messa da parte”, continua Cici.
Di fragilità si può parlare anche per le PMI italiane, come ci spiega Andrea Crespi, vicepresidente SMI con delega alla sostenibilità e direttore generale di Eurojersey. “La difficoltà è reale. Questo riflette in parte ciò che rappresenta la nostra filiera tessile, che è la più rappresentativa in Italia e in Europa. Attualmente, la filiera conta 40.000 aziende e impiega circa 400.000 persone. Facendo un semplice calcolo, si evince che la dimensione media di queste aziende è molto piccola, con meno di dieci dipendenti. Mentre in media il fatturato è di circa 4 milioni di euro. Da un lato, ciò sottolinea l'artigianalità e l'unicità della nostra capacità produttiva; dall'altro, però, emergono problemi significativi.”
Secondo lo studio di TEHA, il presidio sui temi ESG tra le aziende della filiera è diminuito di circa il 3%, con un impatto maggiore sulle PMI con ricavi inferiori a 30 milioni di euro. I principali fattori alla base di questo rallentamento sono tre. In primo luogo, la mancanza di competenze interne ostacola l’adozione di pratiche ESG. In secondo luogo, la bassa redditività, in calo tra il 7% e l’11%, insieme a elevati livelli di indebitamento, rende gli investimenti nella decarbonizzazione difficilmente sostenibili per circa il 92% delle aziende, in particolare nei settori conciario e dell'abbigliamento.
“Oggi, per fare impresa, non è più sufficiente saper lavorare bene con le mani: serve anche un coordinamento, come quello richiesto per gestire le certificazioni, che richiedono una struttura organizzativa adeguata”, continua Crespi. Oggi il nostro valore risiede nella capacità di creare valore. Quando parliamo di sostenibilità, il primo concetto fondamentale è la misurazione. Senza misurare, non possiamo migliorare né le performance finanziarie né quelle legate alla sostenibilità. Progetti come il "Made Green in Italy", che certifica la produzione sostenibile nel nostro paese, può diventare una delle leve principali per creare valore all'interno della nostra filiera.
Le 5 raccomandazioni di TEHA
lo studio TEHA si conclude con 5 raccomandazioni, rivolte al settore privato e pubblico. Innanzitutto, per il think tank è necessario chiudere il gap regolatorio a livello europeo per facilitare decisioni aziendali a lungo termine. Inoltre, si deve semplificare l'accesso al credito per le piccole e medie imprese (PMI), riducendo il carico burocratico e offrendo condizioni favorevoli per investimenti in sostenibilità. “La riduzione della burocrazia è fondamentale, perché l'eccesso di burocrazia sta uccidendo le aziende. Burocrazia significa aumento dei costi e dei tempi, in un mercato dove le marginalità sono già ridotte e la capacità di reazione deve essere elevata. Non riuscire a coordinare questi aspetti è decisamente drammatico”, ribadisce Crespi sul punto.
Resta poi essenziale investire in competenze e ricerca e sviluppo, coinvolgendo università e centri di ricerca per preparare una forza lavoro futura. Si raccomanda di promuovere piani industriali nazionali per il settore moda, che integrino i costi della sostenibilità e affrontino problematiche come il caporalato. Infine, è importante concentrare il mercato per aumentare la competitività. Questi ultimi due punti, in particolare, sono chiave nel panorama italiano. “Favorire la concentrazione del mercato, specialmente tra le PMI, è essenziale per aumentare produttività e capacità di investimento. Questo potrebbe includere agevolazioni fiscali, accesso al credito e finanziamenti pubblici. D’altra parte, ritengo che in un paese dove il sistema è fortemente orientato all'individualismo, diventi sempre più importante fare sintesi e lavorare in squadra. Le aggregazioni saranno, in alcuni casi, l'unica via di sopravvivenza”, conclude Crespi.
Immagine: Venice Sustainable Fashion Forum