Le misure europee per la transizione circolare sembrano attecchire con difficoltà: oltre l’87% del consumo di risorse nell’Unione Europea continua a basarsi su materie prime vergini. Sulla scia della riduzione del tasso di circolarità evidenziata dal Circularity Gap Report 2024, quest’evidenza mette alla gogna l’aumento globale di estrazione e consumo di risorse.

Tale ragione non prende però in considerazione la scomoda evenienza che la transizione circolare non stia generando i benefici ambientali previsti, mostrandosi forse non all’altezza delle aspettative. Ciò potrebbe essere dovuto a un fenomeno ancora poco noto col quale sarebbe bene iniziare a farei i conti: l’effetto rebound.

Un problema di oltre un secolo fa

L’effetto rebound trova origine oltre un secolo e mezzo fa in epoca vittoriana, qualche anno prima della seconda rivoluzione industriale. Nel 1865, l’economista William Stanley Jevons osservò che l’innovazione tecnologica che migliorava l’efficienza dei motori a vapore non riduceva il consumo di carbone, bensì lo aumentava a causa di un loro uso più intensivo. Questo paradosso – noto come effetto rebound – trova riscontro anche al giorno d’oggi: è il motivo per cui, per esempio, si tende a usare di più un’auto più efficiente.

Nel tempo, l’effetto rebound ha trasceso i suoi confini iniziali e si è manifestato anche nei flussi di materiale della transizione circolare. L’efficientamento dei processi di produzione e consumo ottenuto attraverso pratiche circolari ambientalmente virtuose (quali riciclo, riuso, rigenerazione, ricondizionamento ecc.) può infatti generare un aumento della produzione e dei consumi che limita o persino annulla i benefici ambientali previsti da queste pratiche. In altre parole, in certe condizioni, riciclare, rigenerare o recuperare un prodotto giunto a fine ciclo vita può diventare controproducente dal punto di vista ambientale. Una sorta di effetto collaterale inaspettato.

Il rebound è purtroppo lontano dall’essere un fenomeno solo teorico. Se in Europa ne sono già a conoscenza da oltre 10 anni nell’ambito dell’efficienza energetica, le evidenze dello stesso nell’ambito dell’economia circolare non mancano. Per esempio, nel 2018, i ricercatori Tamar Makov e David Font Vivanco, nel loro studio intitolato Does the Circular Economy Grow the Pie? The Case of Rebound Effects From Smartphone Reuse, hanno stimato che un terzo del risparmio di emissioni previsto dall’utilizzo di smartphone ricondizionati negli Stati Uniti − fino alla totalità nel caso di specifici modelli − sia compensato dal rebound.

Nello studio del 2021 dal titolo Innovative recycling or extended use? Comparing the global warming potential of different ownership and end-of-life scenarios for textiles, un team di accademici finlandesi ha stimato che, a causa del rebound nel settore tessile europeo, produrre un paio di jeans nuovi non inquini meno di riciclarne un paio usati, ma che sia addirittura il 15% meno inquinante rispetto a condividerne un capo secondo i principi della Sharing Economy. Analogamente, la ricerca Reviewing circular economy rebound effects: The case of online peer-to-peer boat sharing pubblicata nel 2020 dai ricercatori Jon Warmington-Lundström e Rafael Laurenti mostra che il Rebound potrebbe limitare i benefici ambientali derivanti dai servizi di vehicle sharing.

I meccanismi che generano l’effetto rebound

L’effetto Rebound è un concetto piuttosto controintuitivo che mette in discussione la capacità dei beni secondari – beni realizzati attraverso pratiche di riuso, riciclo, ricondizionamento o simili – di prevenire la produzione dei beni primari – beni realizzati con materie prime vergini secondo un approccio di produzione lineare e generalmente più inquinanti dei secondari. Usualmente, l’economia circolare dà per scontato che un’unità di bene secondario prevenga la produzione di un’unità del corrispettivo primario (un’eventualità chiamata displacement): per esempio, che riciclare una tonnellata di lattine in alluminio eviti la produzione di una tonnellata di alluminio e riduca l’estrazione di bauxite necessario a questa produzione. Quest’assunzione è raramente vera a causa della natura economica di un’economia circolare secondo cui il displacement tra prodotti primari e secondari è influenzato dalla limitata sostituibilità dei prodotti e dagli effetti che il loro prezzo esercita sulla loro domanda.

La limitata sostituibilità sintetizza la limitata capacità dei prodotti secondari di rimpiazzare quelli primari tra le preferenze d’acquisto dei consumatori a causa di qualità minore, effettiva o percepita come tale. Per esempio, è difficile che la carta riciclata competa con quella vergine perché ha caratteristiche meccaniche ed estetiche diverse e non può sostituirla in tutti i contesti. In altri casi, la limitata sostituibilità può essere dovuta a ragioni di fidelizzazione. È il caso dei dispositivi elettronici ricondizionati: possono avere caratteristiche analoghe a quelli nuovi, ma un consumatore affezionato a un marchio difficilmente rinuncerà ad acquistare l’ultima versione del proprio modello di smartphone preferito per acquistarne uno di seconda mano. A causa di ciò, non sempre i prodotti secondari sono in grado di realizzare displacement e prevenire la produzione dei primari. Spesso, le due produzioni si affiancano, aumentando la scelta per il consumatore ma anche la produzione, l’estrazione e l’inquinamento globali.

Gli effetti sul prezzo sono una reazione del mercato all’ingresso dei prodotti secondari. Per invogliare i consumatori ad acquistare beni secondari, come un capo di vestiario riciclato dalla qualità non sempre comparabile a quella di un capo realizzato con fibre vergini, un produttore potrebbe decidere di abbassarne il prezzo per rendere l’acquisto più conveniente e facilitarne la diffusione sul mercato. In molti casi, il prezzo minore del capo riciclato ne aumenterà la domanda: dopotutto, è un capo “green”, costa poco, salva la coscienza ambientale e gratifica il guardaroba. La maggior domanda genererà una sovraproduzione non prevista e, quindi, emissioni addizionali rispetto a quanto preventivato.

Come stimare il rebound

Per dare concretezza a un fenomeno sfuggente come il rebound e cercare di gestirlo, il primo passo è misurarlo. Dopotutto, “non puoi gestire ciò che non misuri” – una frase variabilmente attribuita all’economista Peter Drucker o al padre del Total Quality Management, Edward Deming. È per rispondere a quest’esigenza che, insieme a un team internazionale di tre colleghi della Sheffield University Management School (Ben Harvey Lowe, Meletios Bimpizas-Pinis e Andrea Genovese), abbiamo sviluppato uno studio incentrato su come stimare l’effetto rebound in contesti circolari per poterlo potenzialmente prevenire o moderarne gli impatti in futuro. Questo studio, pubblicato sul Journal of Cleaner Production edito da Elsevier, fornisce una panoramica delle tecniche utilizzabili per stimare il Rebound in contesti circolari.

Esempi di tecniche sono stima dei parametri di elasticità, tecniche e modelli econometrici, approcci macroeconomici basati su modelli di equilibrio generale computabile, analisi Input-output o modellazioni Stock-Flow Consistent, dinamica dei sistemi e simulazioni. L’articolo sottolinea come il rebound abbia effetti, connotazioni e tecniche di misurazione diversi se considerato a differenti livelli di valutazione, quali una singola azienda (micro), una filiera, settore o mercato (meso), un’economia nazionale (macro) o internazionale (globale). Inoltre, enfatizza come l’intensità dell’effetto rebound possa evolversi nel tempo e come certe scelte di business o di policy possano eventualmente causare un effetto domino, generando per esempio un rebound a livello di filiera che si ripercuote a livello nazionale.

Conclusioni

A causa del rebound, riciclare, riutilizzare, rigenerare non sono obbligatoriamente sinonimi di sostenibilità ambientale: bisogna lavorare affinché lo siano. Circolarità può non voler dire sostenibilità. Il focus della transizione circolare sui flussi di materiale ha fatto perdere di vista il fatto che un’economia circolare è prima di tutto un’economia e che, in quanto tale, risponde a meccanismi di mercato che possono pregiudicarne gli intenti ambientali. Recuperiamo la concezione della circolarità non come obiettivo a sé stante, ma come mezzo per conseguire sostenibilità, ambientale ed economica in primis. Non più circolarità per amore della circolarità stessa, misurata riccamente (forse troppo) da indicatori che poco dicono realmente sulle effettive prestazioni ambientali, ma circolarità efficace nella riduzione degli impatti ambientali. Non circolarità, ma buona circolarità.

 

Immagine: Envato