I sistemi alimentari sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni mondiali di gas a effetto serra di origine antropica, secondo la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. Un dato che rende evidente l’urgenza di trovare nuove soluzioni per un’alimentazione che sia allo stesso tempo sostenibile, accessibile e di qualità.

Le diete europee, per esempio, si basano su un elevato consumo di proteine, derivanti principalmente da carne e prodotti lattiero-caseari, due settori molto impattanti. D’altra parte, le alternative a base vegetale al momento disponibili sono per lo più costituite da ingredienti altamente raffinati, che contengono notevoli quantità di additivi e hanno un basso valore nutrizionale, dovuto anche all’alto grado di trasformazione a cui gli alimenti vengono sottoposti: processi produttivi dispendiosi, ad alta intensità energetica e idrica, che fanno oltretutto salire il prezzo di vendita.

Cibi di origine vegetale più sani, accessibili e attraenti

Come favorire il cambiamento? Tra le numerose ricerche in corso in questa direzione, una delle più recenti è Sustain-a-bite, progetto finanziato dall’UE nell’ambito del programma Horizon Europe, in linea con la strategia Farm2Fork del Green Deal, che durerà dal 1° ottobre 2024 al 31 marzo 2028.

Diciannove i partner coinvolti, provenienti da 13 paesi, tra cui anche l’Italia con l’Università di Milano: un network di competenze complementari, che riunisce atenei, centri di ricerca tecnologica, aziende alimentari, esperti di comunicazione e comportamento dei consumatori.

“Fin dalla rivoluzione industriale abbiamo cercato di eliminare dai cereali preziose sostanze nutritive per migliorare il gusto e la consistenza degli alimenti, ma ora bisogna ribaltare questo approccio”, spiega Nesli Sözer, ricercatrice di VTT Technical Research Center of Finland, alla guida di Sustain-a-bite. “La nostra missione è individuare soluzioni tecnologiche che forniscano prototipi alimentari di alta qualità nutrizionale, con bassi livelli di fattori antinutrizionali, grassi saturi e zuccheri aggiunti, utilizzando processi naturali e innovativi ed eliminando il ricorso a ingredienti artificiali e conservanti, nel rispetto delle tradizioni alimentari locali e della sostenibilità.”

L’approccio, ideato per essere accessibile sia da parte di piccole imprese locali che di aziende più grandi, si basa su bioprocessi e trattamenti non termici, che consentono di ridurre più del 30% del consumo di energia e più del 50% di acqua rispetto agli isolati proteici vegetali altamente trasformati.

Attraverso una lavorazione minima, si prevede di combinare cereali integrali (orzo) e legumi (fagioli e ceci) con i sottoprodotti dell'industria alimentare, come sansa di mela, carota e pomodoro. A essere utilizzata è l’intera matrice vegetale, da cui si ricavano non solo proteine, ​​ma anche fibre alimentari, minerali, vitamine e antiossidanti. La tecnologia sviluppata renderà anche più conveniente il consumo di questi alimenti a base vegetale, riducendo i prezzi del 25% rispetto alla carne e ai latticini.

“Valuteremo l'effetto della lavorazione sulla biodisponibilità di macro e micronutrienti, sulla digeribilità delle proteine ​​e dell'amido, nonché sul microbioma intestinale, sviluppando modelli predittivi realistici migliorati in vitro. La sostenibilità, la salute e gli impatti economici saranno stimati sia a livello di prodotto che di sistema.”

Le colture giuste nel posto giusto

Se Sustain-a-bite ha preso da poco il via, si è invece recentemente concluso, con la pubblicazione su Nature Sustainability, uno studio condotto da ricercatori del Glob3science Lab del Dipartimento di ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, in collaborazione con la School of Agriculture and Food Sustainability dell’Università del Queensland, in Australia, e il Department of Environmental Science, Policy, and Management della University of California, Berkeley. 

Al centro dell’analisi, la dieta EAT-Lancet, un modello alimentare basato su principi scientifici, di cui si discute da tempo a livello globale: prevede un equilibrio tra cibi di origine vegetale, come cereali integrali, frutta, verdura, legumi e frutta secca, e una quantità limitata di alimenti di origine animale. Tuttavia, fino a oggi, non era chiaro come il sistema cibo dovesse essere riorganizzato affinché tale dieta potesse essere adottata su scala mondiale senza compromettere le risorse naturali.

“Abbiamo cercato di capire dove coltivare e produrre gli alimenti necessari a nutrire la popolazione sulla base della EAT-Lancet, utilizzando la quantità minore possibile di risorse naturali”, sottolinea Maria Cristina Rulli, professoressa ordinaria di idrologia e sicurezza idrica e alimentare del Politecnico di Milano. “Affidandoci a un modello agro-idrologico integrato con analisi di ottimizzazione, abbiamo esplorato sei scenari dietetici specifici per paese, tenendo conto anche di eventuali caratteristiche di specificità nelle diete dovute ad esempio a particolari regimi dietetici, ad abitudini legate alle tradizioni culturali locali, a prescrizioni alimentari di carattere religioso.”

Attraverso un’analisi spaziale a scala planetaria dell’attuale distribuzione dell’agricoltura alla risoluzione di 10 km, della richiesta idrica locale delle piante e della disponibilità della risorsa idrica, i ricercatori hanno riallocato le coltivazioni delle diverse colture con l’obiettivo di minimizzare l’utilizzo di risorse naturale pur mantenendo una resa colturale almeno pari a quella attuale.

“In concreto, per esempio, una coltura avente le caratteristiche per essere coltivata sia in Pianura Padana che in Sicilia richiede meno acqua, in particolare di irrigazione, se coltivata in Pianura Padana che in Sicilia”, spiega Rulli. “Tale ragionamento può essere applicato alla scala globale.”

Secondo le previsioni, si potrebbero ridurre del 37-40% le aree coltivate globali e del 78% il consumo di acqua per irrigazione, consentendo al contempo di soddisfare gli obiettivi nutrizionali della dieta EAT-Lancet. Il modello evidenzia anche che l’adozione globale di questa dieta richiederebbe un aumento del commercio alimentare internazionale, portando la quota di produzione destinata all’export dal 25% al 36%. Sul fronte economico, si stima un aumento del 4,5% dei costi alimentari, a fronte di significativi benefici ambientali e nutrizionali.

“Perché tutto questo venga messo in atto, però, c’è bisogno sia di politiche adeguate, che sostengano la riorganizzazione del sistema cibo anche dal punto di vista economico, sia di accettazione e di condivisione sociale, nonché di processi di co-creazione con i produttori locali per quanto riguarda la redistribuzione delle colture”, conclude Rulli.

Gusti e percezione dei consumatori

Un elemento centrale per il successo della transizione alimentare riguarda infine l’atteggiamento dei consumatori, responsabili delle scelte finali a tavola. “Indagarne percezione e preferenze è fondamentale, perché numerose variabili possono influire sul comportamento, facilitando o ostacolando l’adozione di diete più sane e sostenibili”, riflette Luisa Torri, professoressa ordinaria di scienze e tecnologie alimentari, direttrice del Sensory, behaviour and cognition lab e prorettrice all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo.

In quest’ottica l’ateneo piemontese sta partecipando a FEAST - Food systems that support transitions to hEalthy And Sustainable dieTs, progetto finanziato dal programma Horizon Europe dell’UE e condotto nell’ambito di Farm2Fork, dal luglio 2022 al giugno 2027.

“Stiamo conducendo un’approfondita survey nei 27 paesi UE, per un totale di circa 26.000 intervistati”, spiega Torri. “Valutiamo le informazioni socio-demografiche, come età, genere, reddito e contesto, le abitudini alimentari, per esempio propensione verso diete a base vegetale o animale, e anche l’atteggiamento individuale, come neofobia e neofilia, rispettivamente riluttanza e propensione verso l’assaggio di prodotti poco familiari tra cui quelli innovativi.” 

Va poi considerato l’atteggiamento dei cittadini verso le food policy governative e la relativa comunicazione: quanto interesse c’è a ricevere informazioni sulla sostenibilità degli alimenti? “Da una prima analisi abbiamo riscontrato una maggiore propensione nei paesi del Sud Europa, come Spagna, Italia, Portogallo e Grecia, dove c’è maggiore interesse verso la provenienza dei cibi e i processi produttivi, soprattutto nelle donne in età giovane adulta, in contesti urbani, con un livello di istruzione più elevato e una percezione del reddito familiare come adeguato”, prosegue Torri.

L’Università di Pollenzo ha anche condotto vari studi più specifici, pubblicati nei mesi scorsi sulla rivista Elsevier. “Abbiamo indagato l’atteggiamento dei consumatori verso diversi tipi di prodotti, dai cibi upcycled, ovvero realizzati con scarti alimentari, come biscotti con farina di vinacce, birra prodotta con pane raffermo e formaggi derivati da residui caseari, ai novel food, in particolare gli insetti, che l’UE sta gradualmente introducendo”, conclude Torri.

Quest’ultimo studio ha esplorato le reazioni dei consumatori e delle consumatrici nei confronti di diverse specie, in diverse fasi di vita (larva, pupa, adulto), come formiche, grilli, locuste e larve del bambù. La ricerca ha anche dimostrato che una maggiore conoscenza delle caratteristiche di sostenibilità dei prodotti alimentari da parte delle persone potrebbe favorire l’integrazione di nuovi alimenti nella dieta, sottolineando l’importanza di campagne informative mirate.

 

In copertina: immagine Envato