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Lo scorso febbraio, il Bangladesh è stato teatro di manifestazioni legate a una disputa storica con l'India sullo sfruttamento delle acque del fiume Teesta, una controversia che riguarda la giusta ripartizione delle acque di questo fiume transfrontaliero. Il Bangladesh, chiedendo una maggiore quota rispetto a quella attuale, spinge per la realizzazione di un progetto da miliardi di dollari – a cui non mancherebbe il supporto della Cina − per rispondere al proprio fabbisogno.
Un caso che evidenzia la crisi del multilateralismo e la difficoltà di applicare un diritto internazionale dell'acqua capace di rispondere alle nuove sfide globali, cambiamento climatico incluso. Dinamiche che potrebbero ripetersi in altri contesti internazionali, compresa l'Europa.
Ne abbiamo parlato con Filippo Menga, professore di geografia all'Università di Bergamo e visiting research fellow all'Università di Reading (Regno Unito). Menga è autore di Sete (Ponte alle grazie, 2024), Power and Water in Central Asia (Routledge, 2018) e, dal 2024, direttore della rivista Political Geography.
Il conflitto tra India e Bangladesh sulla gestione delle risorse idriche dura da circa quarant'anni. I due paesi condividono 54 fiumi, con origine in India e foce in Bangladesh, dando all'India un vantaggio strategico nel controllarne il flusso. Sebbene non ci sia stato un blocco totale, le relazioni rimangono tese. Eppure, dal punto di vista del diritto internazionale, ci sarebbe la Convenzione ONU del 1992 sui corsi d’acqua transfrontalieri, ma né l’India né il Bangladesh l’hanno firmata. Come mai?
Questo riflette un approccio improntato al bilateralismo, tipico delle grandi potenze, che preferiscono negoziare direttamente anziché vincolarsi a trattati multilaterali. In un negoziato tra India e Bangladesh sul Teesta o sul Gange, è evidente che l’India ha un peso maggiore, sfruttando la questione idrica come leva strategica in trattative più ampie, che possono includere temi come la migrazione, il controllo delle frontiere, la cooperazione energetica e la sicurezza. Inoltre, spesso si preferisce rinegoziare di volta in volta piuttosto che impegnarsi in un trattato definitivo. Nel caso specifico del Teesta, l’India storicamente sfrutta la maggior parte delle risorse idriche. Il fiume ospita almeno una ventina di grandi dighe e centrali idroelettriche, la maggior parte delle quali si trovano in territorio indiano, sebbene il corso del fiume sia diviso per due terzi in India e un terzo in Bangladesh. Negli ultimi anni è emersa però l’ipotesi di un progetto noto con diversi nomi, tra cui "Teesta River Project". L’obiettivo dichiarato è quello di ripristinare parte della biodiversità perduta lungo il tratto del fiume in Bangladesh e di migliorare la gestione del bacino idrico. Tuttavia, il piano include anche nuovi progetti idroelettrici. Diplomatici indiani sostengono che il Bangladesh non sia riconoscente per i 30 anni di aiuti ricevuti, mentre la parte bangladese sottolinea la volontà di maggiore indipendenza.
Un fenomeno simile si è verificato anche nel caso del Nilo, soprattutto nelle dinamiche tra Etiopia ed Egitto, dove quest'ultimo ha ostacolato a lungo la realizzazione di grandi infrastrutture da parte dell'Etiopia, che oggi sono invece state completate.
Sì, tuttavia un elemento che ha aggiunto complessità alla situazione del fiume Teesta è il coinvolgimento della Cina. Cina e India sono infatti i due più grandi costruttori di dighe al mondo, e hanno guidato il boom dell'energia idroelettrica a partire dal 2010.
Quindi la rivalità non riguarda solo le dighe, ma è anche una rivalità regionale tra le due grandi potenze asiatiche? Cosa sta cambiando?
L'India, che non aveva mai avuto interferenze da parte della Cina, ora le percepisce, visto che la Cina è coinvolta in progetti strategici nella regione. I cinesi potrebbero fare ingenti investimenti, ma questo comporta una difficile scelta per il Bangladesh. Se da un lato accoglie gli investimenti cinesi, il Bangladesh rischia di alienarsi l'India, che non vede di buon occhio il coinvolgimento della Cina nell’area. Se invece il Bangladesh si schiera con l'India, finisce per tornare a dipendere da chi lo ha storicamente soffocato. Questa tensione ha portato a importanti proteste interne, e il Bangladesh si trova in una situazione delicata, anche perché il paese ha recentemente visto cambiamenti politici rilevanti. Sta diventando quasi un campo di battaglia per la rivalità tra Cina e India. È evidente che il diritto internazionale, in particolare quello dell’acqua, sta affrontando nuove sfide, incluso il cambiamento climatico, e tendono a diventare prevalenti le soluzioni unilaterali. In un’epoca storica in cui sembra valere il principio del “liberi tutti” nella gestione delle dispute internazionali, sarà sempre più cruciale fare valere le norme del diritto internazionale.
Il fulcro della questione è però sempre lo stesso. Come può il diritto internazionale influenzare concretamente le politiche idriche quando mancano strumenti efficaci per imporre il rispetto dei trattati?
In un contesto internazionale dove le potenze globali sembrano cambiare le regole del gioco, come nel caso di Trump e del suo approccio unilaterale alle questioni geopolitiche, è la sovranità nazionale a essere messa alla prova. Paesi come il Brasile, con la politica di Bolsonaro sulla foresta amazzonica, hanno messo in discussione l’idea che le risorse naturali, come l’acqua o le foreste, appartengano a tutta l’umanità. Il risultato di queste politiche potrebbe essere una continua erosione delle regole internazionali in favore di una maggiore autonomia dei singoli stati, ma questo approccio, pur dando l'illusione di un controllo sovrano, si scontra con la realtà di una geopolitica complessa e interconnessa. Tuttavia, e anche in assenza di strumenti coercitivi diretti, il diritto internazionale agisce come una forza di pressione indiretta: plasma il dibattito globale, fornisce legittimità alle rivendicazioni di stati o comunità svantaggiate (ad esempio, nei conflitti transfrontalieri sui fiumi come il Nilo o il Mekong) e offre un terreno comune per la cooperazione. Inoltre, la crescente interdipendenza economica e ambientale – si pensi alla dipendenza delle catene di approvvigionamento globali dall’acqua o agli effetti dei cambiamenti climatici – rende l’isolazionismo statale sempre meno praticabile. L’illusione di un controllo sovrano assoluto, come quella perseguita da alcune potenze, si scontra con la realtà di un mondo interconnesso, dove le crisi idriche non rispettano i confini nazionali. Il vero potenziale del diritto internazionale, quindi, risiede nella sua capacità di incentivare, più che imporre. Attraverso pressioni diplomatiche, sanzioni economiche indirette (come quelle imposte da blocchi commerciali o investitori internazionali) e la mobilitazione dell’opinione pubblica globale, può spingere gli stati a conformarsi, anche quando mancano strumenti esecutivi forti.
Continuiamo a sorvolare il nostro “pianeta acqua”. Quali sono altri punti caldi?
I conflitti sui fiumi sono numerosi. Un caso emblematico è quello del Mekong, dove la controversa diga di Xayaburi, costruita dal Laos con il sostegno di interessi cinesi, minaccia l’ecosistema e le comunità a valle, come in Vietnam e Cambogia, suscitando proteste internazionali. Altro esempio è il Grande progetto anatolico in Turchia, che con le sue dighe sui fiumi Tigri ed Eufrate riduce drasticamente il flusso verso l’Iraq e la Siria, aggravando crisi interne come la siccità e favorendo infrastrutture a scapito dei paesi vicini. Il conflitto sul Nilo tra Etiopia, Egitto e Sudan, già citato, rimane un punto critico, con la diga GERD che ridefinisce i rapporti di forza nella regione. In America Centrale, il fiume Colorado è conteso tra Stati Uniti e Messico: le fabbriche americane e l’agricoltura intensiva vicino al confine alterano il flusso, impoverendo l’ecosistema del delta messicano, un tempo ricco di biodiversità. Anche il Medio Oriente offre un caso significativo con il fiume Giordano, dove Israele controlla gran parte delle acque, limitando l’accesso per i territori palestinesi, la Giordania e, in misura minore, il Libano, in un contesto di tensioni politiche già esplosive. A questi si aggiungono le falde acquifere sotterranee, come quella del Guaraní, condivisa tra Uruguay, Argentina, Brasile e Paraguay: una risorsa strategica che attira investimenti e ricerca internazionale, ma che rischia di generare conflitti simili a quelli per il petrolio, data la crescente competizione per l’acqua potabile.
Professore, visti i tempi, un’ultima domanda è d’obbligo. Anche la situazione in Europa potrà cambiare?
In Europa, storicamente, c’è stato un buon esempio di cooperazione sui grandi fiumi, come il Reno e il Danubio, che attraversano alcune delle aree più industrializzate del continente. I fiumi vengono utilizzati per molteplici scopi: ricreativi, industriali, agricoli, e idroelettrici. La gestione condivisa di questi corsi d’acqua ha permesso di evitare disastri. La cooperazione internazionale è stata fondamentale in queste aree, e i paesi europei hanno compreso che proteggere i fiumi è nell'interesse di tutti, anche per non compromettere scambi economici e stabilità politica. Per esempio, il Danubio, che attraversa una decina di paesi, tra cui Ucraina, Ungheria e Romania, è un fiume che oggi è minacciato da tensioni politiche interne. Rispetto a dieci anni fa la situazione è cambiata. Tensioni politiche interne, come il crescente sovranismo in Ungheria sotto Orbán, mettono in discussione l’affidabilità di alcuni attori nella gestione condivisa. Budapest, ad esempio, potrebbe privilegiare interessi nazionali a scapito degli impegni regionali, complicando la cooperazione. Allo stesso modo, il Reno, che collega Svizzera, Germania, Francia e Paesi Bassi, non è immune da rischi: i cambiamenti climatici, con siccità sempre più frequenti, stanno riducendo la portata d’acqua, e questo potrebbe spingere i paesi a rivalutare gli accordi in chiave più competitiva. Nonostante la cooperazione che caratterizza la gestione dei fiumi in Europa, la recente evoluzione politica di alcuni stati solleva dubbi su come questa interazione possa evolversi. L'esempio che faccio sempre ai miei studenti è quello di una partita di calcio: se non te ne accorgi, significa che l’arbitro sta facendo bene il suo lavoro. Ma quando c'è un problema, come nel caso dell'acqua, allora tutti si accorgono del conflitto. Sebbene l'Europa abbia gestito da decenni le acque transfrontaliere in modo cooperativo, ora la situazione sta diventando più complicata, anche in contesti che sembravano stabili.
In copertina: il fiume Teesta in un passaggio montano