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Da Cali - Si è conclusa un giorno dopo il previsto a Cali, in Colombia, la COP16, il negoziato sulla biodiversità riunito per l’implementazione del Global Biodiversity Framework, in un misto di disillusione e alcuni risultati storici, dopo una notte intera di negoziati. L’incontro avrebbe dovuto lavorare concretamente su soluzioni e implementazioni dei 23 punti dell’Accordo ONU del 2022 per salvare la vita vegetale e animale della Terra, proteggendo il 30% del pianeta e ripristinando il 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030.
Mentre le poche delegazioni rimaste sono incollate ai telefoni cercando di prenotare nuovi voli – in molti si sono lamentati del fatto che i paesi meno ricchi non avessero risorse a disposizione per prolungare la permanenza – i giornalisti cercano di interpretare le decisioni prese e le opportunità mancate di quello che si è rivelato un negoziato inficiato dalle decennali divisioni tra paesi industrializzati (Europa, Giappone, Svizzera, etc) e paesi in via di sviluppo o di nuova industrializzazione, guidati in particolare dal Brasile e dagli stati africani.
I risultati positivi di COP16
Tre i risultati positivi di COP16 evidenziati dalla presidenza colombiana, guidata dall’abile Susana Muhamad, “l'inclusione dell'Organo permanente per i popoli indigeni e le comunità locali nella Convenzione, incluso il riconoscimento dei popoli afrodiscendenti, e dello storico Fondo di Cali, istituito per raccogliere i contributi delle aziende private sull'utilizzo dei dati genetici digitali (DSI) derivati dalle risorse biologiche”.
Da un lato quindi si crea una reale rappresentanza delle popolazioni indigene e una maggiore forza rappresentativa che dovrebbe portare a un maggiore riconoscimento dei diritti di proprietà dei territori indigeni, ricevere risorse dedicate e avere maggiore rappresentatività nei processi. Questo si lega fortemente al meccanismo DSI, che di fatto chiede ad aziende dei settori farmaceutico, cosmetico, nutraceutico, genetico e dell’allevamento di pagare almeno l’1% dei propri profitti per lo sfruttamento delle risorse genetiche legate alla biodiversità per aiutare i paesi meno sviluppati a proteggere la natura. Infine, va menzionato il testo finale sull'identificazione di nuove aree marine di importanza ecologica o biologica (EBSA), anche in acque internazionali, ampliando così la rete globale di zone protette.
Gli insuccessi di COP16
Duro stop invece al documento sulla strategia finanziaria e mobilitazione di risorse per raggiungere il goal al 2030 di movimentare 200 miliardi di dollari l’anno a livello globale e il goal intermedio di 20 miliardi di dollari al 2025 dovuto dai paesi sviluppati firmatari del Global Biodiversity framework ai paesi più vulnerabili per la protezione della natura. Verso le 8 del mattino la presidente Muhamad ha improvvisamente sospeso la seduta, dopo 12 ore di negoziati continui, passati senza trovare un accordo tra le parti. A quel punto la plenaria era inutile, vista l’emorragia di delegati che ha reso impossibile il quorum.
Senza delegati a votare è saltato sia il documento sulla finanza che quello sul PMRR, il quadro di monitoraggio degli avanzamenti degli impegni presi dai paesi (solo 44 hanno presentato piani nazionali per la tutela della biodiversità) che non ha potuto essere votato. I negoziati saranno ripresi il prossimo anno, durante un incontro intermedio a Bangkok.
La presidente, per tamponare la decisione shock, ha diramato un messaggio audio alla stampa per difendere l’organizzazione di una COP che ha visto 23.000 delegati e quasi un milione di visitatori nella Zona Verde (una cifra sovrastimata, secondo l’autore), “insediando la Coalizione per la pace con la natura, creando la più grande campagna di educazione sulla natura che la Colombia abbia mai avuto nella sua storia e la più importante mobilitazione per la vita che abbiamo mai fatto”. Ma nonostante i tentativi di tutelare l’operato, Cali non è di sicuro un successo, anzi ha mostrato grandi fragilità della COP Biodiversità, con delegazioni ridotte, non sempre preparate e supportate nel segmento di alto livello da figure politiche secondarie, come il sottosegretario Claudio Barbaro per l’Italia (che non ha nemmeno rilasciato un commento sulla chiusura del negoziato), non sempre consapevoli dell’importanza del negoziato.
Kirsten Schuijt, direttrice generale del WWF Internazionale, ha dichiarato: "Nonostante i valorosi sforzi della Colombia e l'instancabile lavoro di molti negoziatori per trovare un consenso e costruire ponti tra i paesi, questo risultato mette a rischio l'attuazione del Quadro globale per la biodiversità di Kunming-Montreal. Ciò non dovrebbe andare bene a nessuno, perché avrà un impatto su tutti noi. Portare a termine la missione di arrestare e invertire la perdita di biodiversità entro il 2030 non è mai stato facile, ma ora stiamo andando pericolosamente fuori strada".
Tutto sospeso sulla finanza
Gran parte delle incomprensioni sono nate sulla natura del fondo per le risorse alla tutela della biodiversità verso i paesi meno sviluppati. In maniera provvisoria con l’accordo del 2022 si era stabilito di creare il GBFF, Global Biodiversity Framework Fund, in seno al GEF, un’organizzazione voluta dalle Nazioni Unite che gestisce vari fondi per l’ambiente legati ai negoziati ONU.
Similmente ai negoziati clima e desertificazione, per paesi come il Congo e il Brasile sarebbe stato importante realizzare un nuovo fondo autonomo, in cui i paesi non occidentali avrebbero avuto maggiore importante. Ma per l’Europa creare un nuovo fondo (con relativi direttori, sedi, etc) avrebbe creato un costo ulteriore e ridotto la capacità di controllo sulle risorse allocate.
Nella giornata del 1° novembre la presidente di COP16 aveva offerto un’ultima bozza di testo con la possibilità di creare un nuovo fondo per la biodiversità, ma la proposta è stata rifiutata da Unione Europea, Svizzera e Giappone. "Ulteriore frammentazione del panorama dei finanziamenti per la biodiversità. Un nuovo fondo non significa nuovi finanziamenti", questa la posizione del negoziatore EU.
I diritti indigeni
Tra le sale del Convention Center Valle del Cauca dove si sono tenuti i negoziati è stata invece lungamente applaudita la decisione sull’Articolo 8(j), che stabilisce rispetto e conservazione della conoscenza e delle pratiche indigene e locali per la biodiversità. Il testo rafforza la rappresentanza, il coordinamento, il processo decisionale inclusivo e crea uno spazio per il dialogo con le parti della COP. Dà priorità al sostegno della gestione della biodiversità indigena e tradizionale del territorio e promuove gli standard internazionali dei diritti umani citati nel Quadro globale per la biodiversità.
L'organismo sarà formato da due copresidenti eletti dalla COP: uno nominato dalle parti dell'ONU del gruppo regionale e l'altro nominato dai rappresentanti delle popolazioni indigene e delle comunità locali. Txai Suruí, coordinatore del Movimento giovanile indigeno, ha dichiarato: “Quello che è successo con l'articolo 8(j) è davvero storico: abbiamo ottenuto il riconoscimento dei popoli indigeni e delle comunità afrodiscendenti come custodi della biodiversità. Il fatto che sia stato raggiunto in Amazzonia ha dato ulteriore forza al testo. Sarebbe stato meglio se non fosse stato un testo separato, e speravamo in altre vittorie, in particolare per quanto riguarda i finanziamenti, ma è stata indubbiamente una vittoria”.
DSI, il vero successo di COP16
Mentre il martello si abbatte per sancire l’approvazione del DSI, il meccanismo per la giusta ed equa condivisione dei benefici legati all’uso di dati genetici digitali, Susana Mohamad ride incredula, quasi isterica, dopo il lungo lavoro di negoziazione per chiudere questo punto centrale per la Colombia. Per la prima volta chi fa profitti grazie alle proprietà specifiche di piante e animali dovrà restituire una parte dei propri ricavi per sostenere la tutela della biodiversità. Si istituisce il Fondo di Cali per convogliare le risorse derivanti dall'uso commerciale della natura per la conservazione della biodiversità, in particolare a favore dei paesi in via di sviluppo, delle popolazioni indigene e delle comunità locali, sostenuto da aziende e settori che traggono benefici commerciali dai dati delle sequenze genetiche.
A contribuire saranno imprese del settore farmaceutico, nutraceutico (alimenti e integratori per la salute), cosmetico, dell'allevamento di animali e piante, delle biotecnologie, delle attrezzature di laboratorio associate al sequenziamento e all'uso delle informazioni di sequenza digitale sulle risorse genetiche, “che hanno un bilancio che supera almeno due su tre di queste soglie (attività totali: 20 milioni di dollari Vendite; 50 milioni di dollari; profitti: 5 milioni di dollari), calcolate sulla media dei tre anni precedenti, dovrebbero contribuire al fondo globale con l'1% dei loro profitti o con lo 0,1% delle loro entrate, come percentuale indicativa”. Grazie all’approvazione dell’articolo 8(j) avendo maggiore autonomia nei processi ONU, le popolazioni indigene potranno ricevere almeno la metà delle risorse del Fondo di Cali.
Secondo vari osservatori sono numerosi i lobbisti del settore farmaceutico intravisti qua a Cali che hanno cercato di annacquare la proposta (di per sé non certo radicale, anzi persino blanda). Ma al momento della pubblicazione di questo articolo non è stato ancora possibile raccogliere commenti dai settori interessati. Abbiamo però dedicato un articolo all’approfondimento del DSI.
Aziende, il bicchiere mezzo pieno
Dal punto di vista delle aziende non è visto come un fallimento, spiega in un commento all’autore Nina Seega, direttrice del Centre for Sustainable Finance presso il Cambridge Institute for Sustainability Leadership (CISL). “Gli impegni economici per la biodiversità sono quasi raddoppiati, raggiungendo i 396 milioni di dollari. È stato concordato un nuovo Fondo di Cali per convogliare più denaro e altre risorse nella conservazione, soprattutto nelle regioni povere del mondo. Sono stati annunciati nuovi finanziamenti per lo sviluppo delle capacità e la conservazione della biodiversità in alto mare, e sono state avviate iniziative e collaborazioni per incentivare i finanziamenti privati. Non solo, è stato positivo vedere 3.000 imprese alla COP16 che hanno dimostrato il loro sostegno a un quadro politico ambizioso e favorevole per affrontare la crisi della natura. Questo sostegno è fondamentale: le imprese si basano sulla natura lungo tutta la catena del valore e i leader aziendali hanno un ruolo fondamentale da svolgere nel responsabilizzare i politici verso un'economia positiva per la natura.”
Il duro lavoro spetta ora ai governi nazionali, che devono definire piani chiari per affrontare la perdita di biodiversità e garantire il raggiungimento degli obiettivi delineati nel GBF. Bisognerà lavorare sui sussidi ambientalmente dannosi, fermare pratiche distruttive dell’agrobusiness, promuovere l’agricoltura rigenerativa, monitorare il settore minerario, contenere il settore turistico.
La vera sfida della biodiversità non è solo Cali o la prossima COP17 a Yerevan, in Armenia. La sfida ora è unire tutti i tre percorsi negoziali su clima, biodiversità e desertificazione e creare pressione reale a livello nazionale su queste tematiche in maniera integrata. Il totale disinteresse mediatico – Materia Rinovabile è stata l’unico media italiano presente alla COP16 –, politico e della società civile (solo 5 comunicati stampa da ONG italiane in 16 giorni su COP16) è un pessimo segnale in Italia. È tempo che il mondo climatico sposi in pieno anche i lavori sulla biodiversità e dia spazio anche alla Convenzione sulla desertificazione. Solo così si potrà fare reale pressione, come sta accadendo grazie all’Accordo di Parigi e le COP Clima.
Immagine: UN Biodiversity