Sono passati quasi 2 anni da quando, il 15 luglio del 2022, ho preso l’aereo che mi ha portata a verificare, con i miei occhi, quanto e in che forma le attività umane stanno modificando, talvolta in modo irreparabile, il mondo naturale.

Sul muro del mio studio, la mappa della Panamericana ‒ la strada che collega l’Alaska al Cile, per poi diramarsi, assumendo nuovi nomi, e raggiungere Ushuaia, in Argentina ‒ sembrava così immensa e complessa nelle forme e nei paesaggi che più di una volta mi sono chiesta se non fosse un’impresa irrealizzabile.

Allora come oggi, quella linea lunga circa 30.000 chilometri, che per me e Davide Agati, documentarista della spedizione, sarebbero diventati quasi 80.000, è il simbolo di un’unione fallita tra due continenti e i loro interessi, le loro culture, uno sviluppo socio-economico così distante da sembrare, spesso, incolmabile. Ma la Panamericana è anche uno straordinario laboratorio per chi, come me, vuole verificare quanto ciò che accade ogni giorno lungo una strada dall’altra parte del mondo influisca sulle nostre vite e quanto, allo stesso tempo, le nostre azioni quotidiane possano avere effetti inimmaginabili per svariate specie e popolazioni.

Dalla tundra artica al bosco andino patagonico, attraverso il paramo e le lagune salate boliviane, la foresta amazzonica, i ghiacciai dell’Alaska e i vulcani che esplodono nel cuore della notte in Guatemala, l’oceano Pacifico come costante compagno di viaggio fino al punto in cui, nello stretto di Magellano, abbraccia l’Atlantico tra tempeste e onde che solo esperti marinai cileni sono autorizzati ad affrontare.

Oggi, a pochi giorni dal rientro in Europa, faccio i conti con aspettative e realtà e mi rendo conto di come le risposte che ho accolto siano molto più complesse delle domande che mi ero posta nei mesi che hanno preceduto la partenza.

La riserva di Sian Ka’an invasa dalla plastica (Messico) © Davide Agati per WANE - We Are Nature Expedition

 

A voler tirare le somme della spedizione WANE - We Are Nature Expedition usando i 5 fattori di perdita e degrado della biodiversità individuati da IUCN ‒ cambiamenti climatici, perdita di habitat, inquinamento, diffusione di specie aliene e sovrasfruttamento ‒ posso affermare con ragionevole certezza che ognuno di questi è presente in tutte le regioni che ho attraversato.

A partire dall’Alaska, dove la fame di petrolio, gas e svariati altri minerali di cui il sottosuolo è estremamente ricco, sta minacciando l’Artico e dove, nonostante gli avvertimenti della scienza, progetti di ricerca ed estrazione come Willow rischiano di provocare nuove cicatrici su un suolo fragile, alterando il modo in cui l'acqua di superficie scorre nella tundra, drenando i laghi e accelerando il disgelo del permafrost in alcune aree. Tra gli organismi più in pericolo ci sono i caribù, le cui principali mandrie che vivono tra Canada e Alaska hanno subito un declino del 56% in soli 20 anni a causa del riscaldamento globale, che qui sta avvenendo con una velocità di 2 o 3 volte superiore rispetto al resto del mondo, della perdita di habitat, del prelievo venatorio, delle difficoltà di gestione da parte di un numero variegato di agenzie ed enti privati, e dell’inquinamento, tra cui quello determinato dalla presenza di microplastiche.

Paradisi tropicali invasi dalla plastica, spesso proveniente da luoghi lontani migliaia di chilometri e trasportata poi dalla marea, come la Riserva di Sian Ka'an in Messico, patrimonio dell'umanità dell'UNESCO dal 1987. Spiagge in cui, tra le conchiglie, giacciono le teste di squali martello di poche settimane, vittime di un mercato nero che non accenna a fermarsi e che qui, tra governi corrotti e povertà, trova terreno fertile. E poi la deforestazione, inarrestabile come i cambiamenti climatici che mandano a fuoco ettari di foresta vergine nell’Amazzonia ecuadoriana e boliviana, così come in Guatemala.

Qui, dove le ferite della guerra civile e del genocidio Maya sono ancora aperte, tra il 2022 e il 2023 sono stati cancellati 568.000 ettari di foresta pluviale primaria, pari a circa il 33% dell’intera copertura forestale del paese. Le cause sono da ricercarsi nella monocoltura di palma da olio, che ora domina il paesaggio del Petén e dell’Alta Verapaz, e nell’allevamento di bestiame.

Monocoltura di palma da olio nel Petén, Guatemala © Davide Agati per WANE - We Are Nature Expedition

 

Dal Messico alla Patagonia, mandrie di mucche e pecore danno al paesaggio un aspetto fasullo e raccontano storie di governi collusi con il traffico di droga, dando vita a quel fenomeno chiamato narcoganaderia. Animali che vengono macellati qui, dopo essere cresciuti illegalmente nelle riserve indigene del Centro e del Sud America, per poi finire nei supermercati e nelle tavole degli Stati Uniti e dell’Europa, Italia compresa.

Dolore, frustrazione e fatica. Un trittico che mi ha accompagnata per 18 mesi. Non tanto nel raccogliere testimonianze ma nel raccontarle a un mondo occidentale che si sente lontano da tutto questo, immune dalla sete che attanaglia i fiumi dell’Amazzonia, dal nero del petrolio che uccide la terra in Ecuador, e dal fumo degli incendi che brucia le narici dei villaggi indigeni e di migliaia di specie animali, vegetali e fungine.

La mano sporca di petrolio di Donald Moncayo, responsabile dell’Udapt (Unione delle vittime della contaminazione da petrolio da parte della Texaco) in Ecuador © Davide Agati per WANE - We Are Nature Expedition

 

Ma in mezzo a tutto questo, quello che porto con me e che credo mi accompagnerà in ogni istante, è la meraviglia di un mondo naturale che, nonostante la nostra caparbietà nel volerlo addomesticare, lotta e si riprende i suoi spazi. L’ho capito nelle notti passate nella selva, tra gli occhi luminosi di ragni che sembrano lucciole e suoni che cambiano a ogni ora. L’ho visto nel comportamento dei leoni marini alle Galapagos, così abituati alla presenza umana ma sicuri dello spazio che appartiene loro, e dei pinguini di Magellano lungo la costa argentina, dove gli oleodotti rischiano di aumentare ma la colonia di questi caparbi uccelli marini non accenna a mollare e ha contato, quest’anno, circa 26.000 coppie riproduttive. Me l’hanno dimostrato tutti coloro che ho intervistato ‒ professori, attivisti, capi indigeni, scienziati e cittadini appassionati ‒ che, tra sorrisi e qualche lacrima, si sono detti certi che l’amore, la conoscenza e l’educazione siano più forti di qualsiasi interesse economico e dei tempi bui in cui navighiamo.

La colonia di pinguini di Magellano di Cabo Virgenes, Argentina © Davide Agati per WANE - We Are Nature Expedition

 

Ecco dunque che, nella mappa della coesistenza che tutti loro mi hanno aiutata a costruire, la Panamericana non è più solo una strada ma un filo che unisce coscienze e fatica, progetti ambiziosi, politiche di conservazione e infrastrutture che, se replicate altrove, possono raccontare con parole e fatti l’unica evidenza che continuo a confermare ovunque io vada: “L’empatia può davvero salvare il mondo”.

Una bambina Maya a Tikal, in Guatemala © Davide Agati per WANE - We Are Nature Expedition

 

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Immagine di copertina: lungo la Dalton Highway, Alaska © Davide Agati per WANE - We Are Nature Expedition