L’Alleanza Verdi Sinistra si presenta alle elezioni europee con una rosa importante di candidate e candidati. Al di là della proposta dell’attivista Ilaria Salis, al momento ai domiciliari in Ungheria – non particolarmente apprezzata dalla base green –, il raggruppamento della sinistra ecologista ha pescato tra nomi famosi (Mimmo Lucano, Ignazio Marino, Luca Orlando), nomi della cultura e della scienza (Christian Raimo, Giorgio Vacchiano) e giovani emergenti di partito (Cristina Guarda, Benedetta Scuderi), cercando canditure forti, consolidate e variegate.

A pochi giorni dalle elezioni (in Italia si vota l’8 e il 9 giugno) Materia Rinnovabile ha intervistato candidate e candidati per l’Italia all’Europarlamento, per sapere quali sono le loro idee e intenzioni in materia di ambiente, transizione ecologica, Green Deal, riforme dei trattati e non solo. Per Alleanza Verdi Sinistra (AVS) abbiamo intervistato il trentunenne bresciano Giovanni Mori, ingegnere energetico, ex-portavoce dei Fridays for Future Italia ed eccellente divulgatore, candidato nella circoscrizione del Nord-Ovest (Lombardia, Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta). Con sé porta competenze tecniche sulla transizione e sul Green Deal, con attenzione alla Just Transition.

Giovanni Mori

 

Mori, se sarà eletto all’Europarlamento quali saranno le priorità del suo mandato?

Ambiente, lavoro, diritti e giovani: sono tematiche interconnesse, che viaggiano sulla stessa linea. Dobbiamo fermare il cambiamento climatico, ma non ha senso farlo senza giustizia sociale. Serve pensare alla transizione energetica come modalità per tassare gli extra profitti delle industrie fossili, stimolare nuovi posti di lavoro in settori strategici e con una visione di lungo periodo per i più giovani. È semplicemente l’unico modo in cui la transizione deve avvenire, ed è l’unico modo per assicurarci che le persone siano con noi, soprattutto i più fragili ‒ che siano diritti umani o animali. Tra l’altro lavorare in questa direzione significa lavorare per un mondo più giusto, con meno disuguaglianze e quindi per la pace.

Come si può rafforzare il mandato sul Green Deal in Europa?

Siamo a un bivio: tornare indietro al secolo scorso oppure attuare politiche chiare e coraggiose per disincentivare e gradualmente bandire l'utilizzo di combustibili fossili. Tra le varie misure, certamente bandire al più presto i cosiddetti “sussidi ambientalmente dannosi”, che, solo in Italia, sono più di 20 miliardi all’anno e ancora di più a livello europeo. Allo stesso tempo, investire massivamente in infrastrutture green, quali trasporti pubblici sostenibili (e renderli accessibili a tutti e tutte, anche sulle lunghe distanze) e, soprattutto, energie rinnovabili e la loro filiera: siamo certi che ci servirà una quantità massiccia di solare, di eolico, che sono ovviamente le energie del futuro e per cui mi batto personalmente da moltissimi anni. Infine, non scordarsi mai di chi potrebbe venire svantaggiato dalla transizione: l’Europa stava andando timidamente nella direzione giusta, ma senza spostare i fondi in maniera efficace per aiutare le persone che potrebbero perdere il lavoro, per aiutarle economicamente a formarsi e avere un futuro.

La Commissione europea indica una riduzione netta delle emissioni di gas serra del 90% rispetto ai livelli del 1990 come obiettivo raccomandato per il 2040, e una riduzione del consumo di energia prodotta con fonti fossili dell'80% rispetto al 2021. L'Europa ce la farà? Su quali settori e in che misura intervenire?

La domanda non è “se ce la farà”, ma “come ce la farà”. Purtroppo, siamo molto in ritardo e rischiamo seriamente di non mantenere le temperature al di sotto né di 1,5°C né di 2°C di aumento. Non c'è più spazio per i “se”, ma serve immediata volontà politica di intervenire al meglio possibile. Liberiamoci dai combustibili fossili, è strategico per l’Unione Europea perché dipendiamo dall’estero e li paghiamo molto cari. Efficientare e installare molte rinnovabili è l’assoluta priorità. A oggi però mancano prese di posizione forti sul settore moda fast fashion, allevamenti intensivi e aviazione, che racchiudono una discreta percentuale di gas climalteranti. Altro tema cruciale, e su cui stiamo peggiorando, quello dei trasporti: non serve un'Europa in cui il trasporto è motivo di inquinamento o esclusione, ma un'Europa in cui si sia investito in trasporto pubblico sostenibile, per diminuire emissioni e renderlo accessibile a tutti e tutte. Solo mettendo una tassa sul cherosene potremmo ricavare 35 miliardi di euro ogni anno, sufficienti a costruirci 1.400 km di ferrovie. I soldi ci sono, ma serve metterli sulla transizione.

Il Comitato economico e sociale europeo (CESE) ha lanciato una bozza di EU Blue Deal. Quali proposte si potrebbero avanzare sul tema?

È una iniziativa importantissima e se ne è parlato molto poco. I punti programmatici del documento sono già molto esplicativi e completi. In particolar modo, è centrale il principio di rendere la risorsa idrica sempre più un bene comune e non privatizzare, escludendo persone da questo bene primario per eccellenza. Superiamo la colpevolizzazione sui nostri consumi se il settore primario è responsabile del 70% del consumo di acqua globale. Per di più una grande quantità di questa è utilizzata in allevamenti intensivi. Ma anche settore tessile: necessitiamo di 79 milioni di metri cubi di acqua ogni anno per produrre i nostri vestiti. Poi ovviamente un grande piano di efficientamento delle tubature ‒ in Italia abbiamo una media di oltre il 40% di perdite, e con siccità crescenti è un disastro ‒ insieme a una responsabilizzazione verso stili di vita meno water-intensive. Le famiglie consumano una piccola parte, il 10% dell’acqua totale, ma il tema culturale nell’evitare sprechi è importante. E poi, ovviamente, una delle migliori soluzioni: mitigare le emissioni così da ridurre il riscaldamento globale, per evitare che la pioggia si concentri in pochi eventi estremi (risultando quindi inutilizzabile), e da rifocillare i nostri nevai e ghiacciai.

Per l’applicazione delle politiche di sostenibilità sono necessarie riforme fiscali e finanziarie. Quali ritiene prioritarie?

Dobbiamo utilizzare tutte le fonti di finanziamento possibili. Dopotutto, è impensabile non utilizzare un sistema di tassazione delle emissioni climalteranti o rafforzare l’emission trading, che non è esattamente una misura fiscale ma rientra negli strumenti economici. Ma allo stesso tempo serve sussidiare scelte più ecologiche, magari tramite il debito comune, specie per i soggetti più deboli. Pensiamo a finanziamenti indirizzati alle persone più povere per installare pannelli solari sulle case. Si otterrebbe un taglio delle emissioni e la diminuzione delle bollette per quelle famiglie. Lo stesso vale per aziende che adottano pratiche ambientali positive.

Uno dei compiti dei prossimi Commissione e Parlamento sarà la riforma dei trattati EU. Cosa possiamo aspettarci?

Il periodo storico è sicuramente complesso e la diffusione del populismo di destra non aiuta l’avanzamento verso un’Europa Unita. Questo, però, più che scoraggiarci deve ribadire l’importanza di andare a votare. Dal nostro punto di vista, ci batteremo senz’altro per una revisione dei trattati che comporti un’Europa ancora più unita, il superamento dell’unanimità e soprattutto la collaborazione tra stati su molte materie critiche, quali riforme energetiche, diritti umani e politica estera, cercando di non farsi ostacolare dai soliti noti. In altre parole, una maggiore centralità al Parlamento europeo, al fine di rendere l’UE più legittimata agli occhi delle persone e un luogo in cui veramente discutere non solo di economia ma anche di futuro e diritti, filiera europea per la transizione, piano industriale comune e via dicendo.

Oggi l’unico campo dove tiene la diplomazia multilaterale, a fatica, è quello dei negoziati ambientali, mentre la diplomazia su commercio, economia, geopolitica sono ai minimi dai tempi della Guerra Fredda. Cosa va rafforzato in Europa? Diplomazia? Difesa? Investimenti in armamenti? Un piano per una pace verde globale?

Noi condanniamo ogni forma di invasione, guerra e strage di civili. Sappiamo che molte delle guerre derivano anche dalle risorse, e ad esempio la guerra russa contro l’Ucraina è stata finanziata da anni di vendita di gas, anche a noi, in Europa. Liberarsi dai combustibili fossili significa uscire dalla dipendenza geopolitica da queste nazioni guidate de facto da dittatori fossili: la Russia, l’Egitto, l’Algeria o l’Azerbaijan, così che non possano più fare profitti sulla vita delle persone. L’Europa ha bisogno invece di una politica estera comune, vera, che punti a disinnescare tensioni e spingere la diplomazia per la pace. Non scordiamoci mai che l’Europa, quando unita, ha una voce forte in molte decisioni strategiche a livello mondiale (come avviene durante i negoziati per il clima). Un’Europa che si batte per la pace può davvero essere una portavoce universale di questo messaggio.

La questione dei dazi all'importazione dal mercato cinese sta polarizzando l'industria europea, in particolare riguardo alle importazioni di auto elettriche. Come si pone in generale e rispetto a questo settore?

L’auto elettrica non è la soluzione per la mobilità urbana che abbiamo in mente nel lungo periodo ‒ che prevede un mix molto più variegato soprattutto a livello urbano di mobilità leggera, pubblica e ciclabile ‒ anche se sicuramente necessaria nel periodo di transizione. Dopodiché, io vengo da Brescia, patria della metalmeccanica: noi scontiamo anni di ritardi di scelte strategiche. In questo campo il mercato ha già deciso di andare sull’elettrico, e anzi la politica ha aspettato troppo. È solo investendo e innovando che evitiamo di rimanere tagliati fuori dalla futura filiera industriale. È così che proteggiamo l’economia europea e la sua sicurezza: costruire una filiera anche nostra, senza concentrarsi esclusivamente sui mezzi privati elettrici ma anche su trasporti pubblici elettrici, con misure urgentissime per proseguire nel processo di transizione energetica.

Che peso avrà il tema della Just Transition nel prossimo mandato europeo?

Semplicemente fondamentale. Sono dell’idea che non esista transizione ecologica senza giustizia climatica e sociale. Non scordiamoci che la maggior parte dei danni è causata da pochi ricchi. L’1% a livello mondiale inquina più del 66% più povero. Sarebbe semplicemente ingiusto e illogico far pesare la transizione sulle persone nei paesi più poveri. Il principio “chi inquina paga” è già un pilastro della normativa EU. Tocca solo farlo rispettare e per questo serve andare a prendere i profitti, ad esempio, laddove si sono accumulati moltissimo negli ultimi anni: 220 miliardi di euro di extraprofitti delle cinque più grandi aziende fossili nel 2022. È impossibile farlo, finché non lo facciamo.

 

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Immagine di copertina: © Fabian Leitner

 

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