Gli Stati generali della Green Economy hanno celebrato quest’anno la loro tredicesima edizione, presentando durante Ecomondo a Rimini un quadro aggiornato della transizione ecologica in Italia. La Relazione sullo stato della Green Economy 2024, promossa dal Consiglio nazionale della Green Economy e sostenuta dal Ministero dell'ambiente e dalla Commissione europea, ha infatti messo in evidenza importanti progressi in settori chiave come l'economia circolare e l'agricoltura biologica. Nel 2023, l'Italia ha ridotto le emissioni di CO₂ di oltre il 6%, avvicinandosi così all'obiettivo di un taglio del 55% entro il 2030.
Ma non è tutta salute. Il consumo di suolo continua a crescere, coprendo il 7,14% del territorio nazionale, incluse aree vulnerabili a rischi idrogeologici. Inoltre, le immatricolazioni di veicoli elettrici sono ancora limitate rispetto al totale. Edo Ronchi, ex Ministro dell’ambiente e attuale presidente della Fondazione sviluppo sostenibile (carica che ricopre dal 2008), nonché coordinatore del gruppo di esperti che redige il rapporto annuale, ha condiviso con Materia Rinnovabile le proprie riflessioni.
Partiamo larghi. Qual è lo stato di salute della green economy italiana delineato dalla Relazione 2024?
Per valutare lo stato e i trend della transizione a una green economy − decarbonizzata, circolare e nature positive − utilizziamo indicatori relativi ad alcune tematiche strategiche. Nell’ultimo rapporto, presentato agli Stati generali della green economy 2024, abbiamo rilevato che la crisi climatica anche in Italia si sta rapidamente aggravando, generando disastri climatici frequenti. Le emissioni di gas serra, alla base di questa drammatica crisi climatica, in Italia, e in Europa, sono diminuite anche nel 2023, ma non abbastanza. Per cercare di arginare l’aggravamento in corso del riscaldamento globale occorre aumentare gli sforzi, accelerare la decarbonizzazione a livello globale, ma anche europeo.
Che tipo di sforzi?
Dobbiamo anche impegnarci di più, più rapidamente e con risorse finanziarie adeguate, ad attuare misure di adattamento per limitare i danni, essere meno vulnerabili e più resilienti di fronte ai disastri climatici, siano essi alluvioni o siccità estreme. Dobbiamo fare di più per ridurre i consumi di energia, in particolare negli edifici e per decarbonizzare i trasporti. Le rinnovabili, in particolare il fotovoltaico, sono in aumento, ma per decarbonizzare l’elettricità ne servono molte di più. Gli indicatori di circolarità della nostra economia vanno ancora bene, ma abbiamo possibilità di migliorarli ulteriormente. Nella tutela del capitale naturale e della biodiversità siamo carenti: continuiamo ad aumentare il consumo di suolo, anche se diminuisce la popolazione, la nostra rete disperde oltre il 40% dell’acqua, anche se è sempre più preziosa e scarsa in molte aree, la quota di verde nelle città è quasi ferma.
Durante Ecomondo, ha sottolineato che alcuni settori rallentano la transizione ecologica a causa di altre priorità, creando un quadro frammentato e senza slancio. Cosa ne deriva e, soprattutto, cosa si può fare per coinvolgerle maggiormente nel processo di transizione?
Non è solo il nostro territorio impreparato e inadatto ad affrontare la dimensione e la radicalità, sconosciute in passato, degli impatti della crisi climatica, ma anche la percezione largamente diffusa e cavalcata a fini di consenso politico-elettorale. Questa percezione sbagliata, condizionata dall’esperienza passata e accumulata, porta a sottovalutare ciò che sta accadendo. Inoltre, porta molti a parlare di maltempo (che c’è sempre stato) o di fenomeni eccezionali (quindi rari), a non credere ai rapporti scientifici quando spiegano e motivano gli impatti disastrosi del riscaldamento globale. Dobbiamo puntare su una corretta e paziente informazione e purtroppo anche sulla forza dell’evidenza dei sempre più numerosi disastri climatici per superare questa percezione sbagliata. C’è poi il tema dei costi della transizione climatica che non è una passeggiata, ma una sfida impegnativa a un prezzo rilevante. L’esperienza e gli studi documentano che comunque questi costi sono di gran lunga inferiori a quelli causati dai ritardi delle misure che causano maggiori impatti del riscaldamento globale. Preferire l’uovo oggi rinunciando alla gallina domani è una tendenza diffusa, ma prima o poi capiremo che senza galline non avremo più neanche le uova!
Quindi, cosa propone?
La logica dovrebbe suggerire che, a fronte di una sfida globale di questa portata, ciascuno dovrebbe fare, comunque, la propria parte: il mio impegno (personale, di impresa di territorio, di paese e di Europa) non è sufficiente di per sé, ma, se mancasse, le possibilità di vincere questa sfida diminuirebbero e i costi per tutti crescerebbero. È invece ancora diffusa la logica dello scarica-barile: chiedere che siano altri a fare di più, col risultato di rallentare l’efficacia delle politiche climatiche. Molti, infine, hanno una mentalità gregaria, stentano a capire che guidare un cambiamento di vasta portata come la transizione climatica offre anche straordinarie possibilità di innovazione, di nuove attività e nuova occupazione. Quindi mettono la crisi climatica sullo stesso piano di altre priorità economiche, di sviluppo e di occupazione, anche quando queste comportano aumento delle emissioni dei gas serra e ostacolano la transizione climatica. Col risultato più probabile di aggravarla e provocare disastri economici, sociali e occupazionali in un futuro che si sta rapidamente avvicinando. La transizione climatica è ineludibile e va fatta comunque, impegnandosi anche a farla nel modo socialmente più giusto ed economicamente più efficiente possibile.
Si è appena conclusa la COP16 Biodiversità. La relazione riguardo il capitale naturale parla di “deboli misure di tutela e ripristino” e ricorda i dati sul consumo di suolo (19,4 ettari al giorno). Come invertire la tendenza? Dovrebbe toccare al Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC), che però ha delle lacune. Qual è la sua opinione su questo strumento?
Intanto occorre maggiore consapevolezza sull’importanza dei servizi ecosistemici generati dal capitale naturale e dalla biodiversità, per il nostro benessere e anche per il nostro sviluppo. Collegherei, inoltre, in modo stretto le misure, urgenti e impegnative, di adattamento per ridurre la vulnerabilità dei territori agli eventi disastrosi della crisi climatica, a quelle per la tutela e il ripristino del capitale naturale, e per fermare il consumo di suolo, supportandole con finanziamenti consistenti.
La questione suolo si lega alla questione agricoltura. Quali sono gli impatti? La relazione poi parla di novità sul biologico.
Come stiamo verificando, la crisi climatica, con alluvioni e siccità, sta pesantemente incidendo sul calo di importanti produzioni agricole. L’agricoltura italiana resiste per le sue produzioni di qualità, fra le quali hanno ormai un posto di rilievo anche le produzioni biologiche. L’UE ci dice di arrivare almeno al 25% della SAU coltivata con metodo biologico entro il 2030: ora siamo a quasi il 20%, in aumento e sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo europeo.
Il settore dei trasporti e della mobilità sostenibile, invece, sta attraversando una fase complessa: da un lato cresce il numero delle auto, ma dall’altro le immatricolazioni di veicoli elettrici restano limitate. Secondo lei, l’Italia sta perdendo l’occasione di una vera transizione verso l’e-car?
In Italia abbiamo troppe auto in circolazione: se avessimo la media di auto circolanti in Europa (520 ogni 1.000 abitanti), dovremmo alleggerire le nostre città di circa 8 milioni di auto. Ciononostante, l’industria automobilistica nazionale è in profonda crisi: è scesa addirittura all’8° posto in Europa nel 2023 e nel 2024 ha calato ulteriormente la produzione. Accusare l’auto elettrica per una simile crisi è fuorviante. Pensare di uscire dalla crisi dell’auto puntando sul rilancio della produzione di auto tradizionali, diesel e benzina, non pare avere grandi prospettive. E non sembra una grande idea nemmeno quella di puntare a rinviare il 2035 come termine per cessare l’immissione nel mercato europeo di nuove auto a benzina o diesel. Il mercato dell’auto è globalizzato da anni, cinesi e americani si stanno rapidamente muovendo verso l’auto elettrica e se, perdiamo il passo, aggraveremo la crisi dell’auto europea, perdendo anche l’occasione dell’auto elettrica. Lo scarso successo delle vendite di auto elettriche in Italia è dovuto ai prezzi troppo alti e alla limitata disponibilità dei punti di ricarica. Ma non durerà a lungo: saranno presto sul mercato modelli più economici, con migliori prestazioni, e i punti di ricarica stanno aumentando.
Un’ultima domanda, visto che è appena iniziata COP29. A Baku l’Unione Europea aggiornerà i propri NDC, gli impegni che ogni paese prende per combattere il cambiamento climatico, come parte dell'Accordo di Parigi. Quali sono le sue aspettative?
Le COP da anni non sono risolutive: troppi paesi che devono decidere per largo consenso e rilevanti divisioni geopolitiche incidono sul negoziato, oltre il tema del clima. Le COP sono sedi di confronto sempre utili e anche di amplificazione dell’interesse dei mezzi di informazione sui temi della crisi climatica. Sappiamo che stiamo superando il grado e mezzo e che, con gli impegni nazionale attuali, se fossero tutti realizzato, supereremmo comunque anche i 2° C, verso i 2,6-2,8 °C. Occorreranno quindi maggiori impegni di riduzione dei gas serra.
In copertina: Edo Ronchi © Fondazione sviluppo sostenibile