Oggi il Gross Domestic Product, in Italia PIL, è considerato il principale indicatore di salute della nostra economia e di certo il più utilizzato nei processi decisionali. Generalmente a un PIL in crescita è associato un maggior benessere del tessuto socioeconomico; tuttavia, il famoso indicatore non è in grado di misurare né i costi ambientali né i benefici che gli ecosistemi ci offrono. In risposta a questi limiti sarebbero già disponibili nuovi indicatori, fra questi il Gross Ecosystem Product (GEP), capace di catturare il valore dei servizi ecosistemici.

La questione della “contabilità ambientale” non è di certo una novità. Già nel 1993 le Nazioni Unite avevano rilasciato il framework SEEA (System of Environmental Economic Accounting) che invitava gli Stati membri a prendere in considerazione nuovi indicatori promuovendo un “nuovo concetto di sviluppo” più attento all’ambiente. Un invito che non ha mai fatto breccia fra i decisori politici e economici, dunque rinnovato da Antonio Guterres a distanza di quasi trent’anni. “È giunto il momento di correggere un evidente punto cieco nel modo in cui misuriamo la prosperità e il progresso economico. Quando i profitti vanno a scapito delle persone e del nostro pianeta, ci rimane un'immagine incompleta del vero costo della crescita economica”, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite a supporto dell’iniziativa Beyond GDP.

Dal Green GDP al Gross Ecosystem Product o GEP

Il problema non sarebbe la mancanza di idee o di strumenti capaci di dare il giusto peso al “fattore natura”, quanto piuttosto una certa idea di sviluppo ancora fortemente legata al “culto del PIL”. Non sono infatti mancate le proposte per “aggiustare” il prodotto interno lordo. Fra queste quella del NDP, Net Domestic Product, conosciuto anche come Green GDP e calcolabile sottraendo al classico PIL il valore monetario del degrado ambientale, del consumo di risorse e dei costi legati all’inquinamento. Idea, quella del PIL Verde, che non ha mai avuto la considerazione sperata. Le motivazioni? “Barriere” legate al calcolo e l’opposizione di alcuni attori che hanno reso la “transizione verso un sistema di contabilità nazionale verde molto difficoltosa”, si legge in una recente pubblicazione rilasciata dal Joint Research Center della Commissione europea, dal titolo Gross Ecosystem product in macroeconomic modelling.

Se dunque proporre un indicatore alternativo al PIL sembra una sfida impossibile, non è da escludersi la possibilità di affiancare ad esso nuovi indicatori. Fra questi il GEP, discusso dalla pubblicazione citata, in grado di stimare il valore economico dei servizi ecosistemici. Il Gross Ecosystem Product si candida infatti a essere uno strumento chiave per garantire “un’elevata protezione ambientale”, punto cardine dell’UE, aprendo le porte verso una maggiore considerazione del valore della natura nei ragionamenti macroeconomici.

Non si tratta di una “follia green”, ma di uno strumento che ha già dimostrato la sua utilità. Il governo cinese per esempio si serve da tempo del GEP per “valutare l’efficacia delle politiche”, “valutarne l’attuazione” oltre che per “la promozione delle politiche ambientali” come per l’implementazione dell’EFT (Ecological Fiscal Transfers), un sistema fiscale che permette di distribuire fondi statali alle amministrazioni locali impegnate per la tutela della natura.
In altre parole, il GEP, offrendo una stima monetaria dei servizi ecosistemici contribuirebbe ad arricchire le informazioni in possesso ai policy makers garantendo così che “gli impatti ambientali siano presi in considerazione in ogni opzione politica”, non solo nelle politiche ambientali.

I servizi ecosistemici sorreggono ogni economia

“Il servizio ecosistemico è un’accezione antropocentrica per nominare le normali funzioni ecologiche che gli ecosistemi fanno indipendentemente da una richiesta. Nel momento in cui l’uomo necessita di queste funzioni e quindi si crea una domanda, consapevole o inconsapevole, quella funzione diventa un servizio”. Possono essere pensati come “i contributi che gli ecosistemi apportano al benessere umano”. Questa la definizione data a Materia Rinnovabile da Riccardo Santolini, ricercatore nel campo dell’ecologia economica e coautore della prima valutazione nazionale dei servizi ecosistemici in Italia.

L’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, le materie prime che trasformiamo per mangiare e creare prodotti o energia, ma anche la fertilità del suolo, la presenza di impollinatori, la protezione da inondazioni e frane garantita dalla vegetazione oltre alle attività ricreative legate alla natura sono tutti esempi di servizi ecosistemici. Elementi, dunque, intrinsecamente legati alla nostra economia che da una parte si regge su di essi ma dall’altra rischia di comprometterli considerando erroneamente la natura un’entità estranea ad essa.
“Il pensiero economico ha inseguito per tutto il ventesimo secolo e oltre, la realizzazione di un mondo umano del tutto avulso e indipendente dalla natura, libero dal giogo dei vincoli naturali grazie alla tecnologia. Tuttavia, il continuo e crescente prelievo di risorse dal Capitale Naturale, la fornitura di servizi ecosistemici, il progressivo degradarsi dei sistemi naturali sono stati a lungo trascurati nei calcoli macroeconomici”, continua Santolini. Un approccio le cui conseguenze non si sono fatte attendere, come dimostra un Overshoot Day di anno in anno sempre più precoce.

Le proposte non mancano, ma c’è un “ma”

Economia ed ecosistemi sono quindi fortemente interdipendenti, è noto che “senza che gli ecosistemi funzionino non c’è economia o c’è’ quello che c’è sempre stato, un’economia lineare di aggressione delle risorse”. Al contrario “i beni naturali non sono solo una risorsa, ma il fondamento stesso della sopravvivenza e del benessere della società e quindi come tali devono essere considerati”. Per queste ragioni la contabilità ambientale, lo sviluppo e l’implementazione di “bilanci ecologico-economici” risulterebbero fondamentali per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile e probabilmente porterebbero verso un vero e proprio “cambio di paradigma socio-economico” se realmente considerati alla pari dei più classici indicatori di performance economica.

La buona notizia? Le soluzioni esistono già. “Ormai la scienza e una certa politica hanno messo a punto strumenti tecnico scientifici, amministrativi, normativi che possono aprire un momento nuovo nel governo del territorio determinando una perequazione territoriale tra chi produce risorse e chi le usa che si cerca da tempo”, fa notare Santolini. E il GEP rappresenta solo uno fra gli esempi positivi.
Quella cattiva? Il capitale naturale e gli indicatori che ne tengono conto rimangono ancora ai margini del processo decisionale e il PIL, nonostante i suoi limiti, sembra essere ancora l’unico faro per i decisori politici.

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