La reputazione aziendale si basa sempre più su temi ambientali e sociali. Il modo in cui un’impresa si pone rispetto a questioni molto sentite dall’opinione pubblica, come la crisi climatica, la violazione dei diritti umani o il rispetto dei diritti civili, può aumentare o diminuire il consenso dei consumatori, e quindi incrementare o penalizzare le vendite. Per questo sempre più aziende e sempre più spesso decidono di schierarsi e sostenere pubblicamente, soprattutto tramite i social media, determinate cause. Ma non sempre lo fanno nel modo giusto o in buona fede, correndo quindi il rischio di socialwashing: affrontare con superficialità o strumentalizzare tematiche sociali cercando di migliorare la reputazione aziendale ma senza una reale strategia di business a supporto, quindi dando un’immagine ingannevole di sé.

Ne abbiamo parlato con Rossella Sobrero, che ha dedicato all’argomento il suo nuovo libro, Pericolo socialwashing (Egea Editore, 2024), e che da oltre vent’anni si occupa di questi temi, essendo, tra le altre cose, comunicatrice, saggista, consulente, docente all’Università Statale e all’Università Cattolica di Milano, nonché presidente di Koinètica e organizzatrice del Salone della CSR e dell’innovazione sociale, il più importante evento in Italia dedicato alla sostenibilità.

Pericolo Socialwashing porta avanti un percorso iniziato con Verde, anzi verdissimo. Come nasce questo libro?

Verde, anzi verdissimo è stato pubblicato due anni fa per proporre riflessioni, suggerimenti e idee sul tema del greenwashing, che era in quel momento più di attualità. Negli ultimi due anni, invece, molte aziende hanno compreso che la dimensione sociale degli ESG è altrettanto importante di quella ambientale e quindi si sono cominciati a evidenziare i rischi di comunicare il proprio impegno sociale in modo non corretto o poco chiaro. Ho quindi voluto spostare l'attenzione sui rischi e le opportunità che derivano dal raccontare quanto le imprese possono fare per le persone, che siano i dipendenti, la comunità, ma anche i fornitori e tutte le persone con le quali hanno un rapporto.

Nel suo libro parla della velocità con cui nascono neologismi per definire questi temi: è il caso di socialwashing?

No, io non ho inventato nulla, se ne parlava già da tempo ma poco, perché non c'era ancora una così forte attenzione alla dimensione sociale, e, mentre il greenwashing ha una storia decennale che quasi tutti conoscono, la parte sociale, oltre a essere più recente, è anche quella più difficile da misurare. Infatti gli indicatori relativi all'ambiente − per esempio per misurare la riduzione delle emissioni in atmosfera o il consumo di risorse idriche − sono in gran parte ormai condivisi, mentre non ci sono indicatori altrettanto condivisi quando si parla di impatto sociale, cioè di sapere quanto un’impresa ha avuto un impatto positivo sui dipendenti, sulla comunità e su tutti i soggetti con cui è entrata in contatto.

Una tematica che potrebbe sembrare per addetti ai lavori ma leggendo il libro ho trovato una scrittura molto accessibile.

Cerco sempre di scrivere in modo semplice, diretto, con tanti esempi, perché penso che, se l'obiettivo è ampliare la diffusione e la consapevolezza di quanto è importante agire in modo sostenibile e coerente, bisogna cercare di arrivare a tutti. Quindi è chiaro che è più facile che il mio libro lo legga chi opera in un'azienda del settore comunicazione, ma non è il solo pubblico a cui ho pensato scrivendolo. Ho dedicato una parte anche all'importanza che hanno degli attori che di solito consideriamo poco nell’ambito della sostenibilità, come commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro, ma che invece possono avere un ruolo importante nel suggerire ai propri clienti, che spesso sono aziende piccole o medie, di raccontare in modo corretto le proprie attività nel sociale.

A proposito di piccole e medie imprese, a settembre 2024 l'Italia ha recepito la Direttiva CSRD con l'obbligo di rendicontazione anche per le PMI quotate. Come pensa che influirà sul tema del socialwashing?

È ancora troppo presto per capire quali saranno le ricadute. Ma è certo che per poter rendicontare un progetto sociale bisogna prima attuarlo. Per cui è necessario che le PMI attivino una strategia in ambito sociale, e che le PMI che già lo fanno con quella che io chiamo “CSR inconsapevole” − tramite agevolazioni per i dipendenti, collaborazioni con le comunità, i territori o gli enti del terzo settore, per esempio, senza comunicarlo − la facciano emergere. Perché bisogna essere consapevoli che queste sono attività ascrivibili a una strategia di sviluppo sostenibile.

Nel libro cita tanti casi studio di aziende come esempi positivi ma soprattutto negativi. In una società dominata dai trend social e dall’informazione usa e getta − per cui oggi tutti parlano di uno scandalo che domani sarà già dimenticato perché l’attenzione si sarà spostata su altro − conviene di più fare socialwashing ma far parlare di sé oppure comportarsi bene ma rimanere nell'ombra?

Questa è una domanda difficile, ma fare del bene e non dirlo è sbagliato, a mio parere, per due motivi. Il primo è che si rinuncia come azienda a un asset che potrebbe essere utile per la reputazione, o per facilitare un prestito dalla banca, per esempio, visto che oramai le banche si basano molto sui rating. È come avere in mano una buona carta e non giocarla. Il secondo motivo è che raccontando in modo vero ciò che si fa come attività sociale a favore delle persone, della comunità, si può essere di esempio per altre aziende e contribuire alla diffusione di una cultura positiva e allo sviluppo di strategie più sostenibili. Uso apposta la parola “cultura” perché credo che il cambiamento debba essere culturale. Il fatto che poi le persone si dimenticano dei problemi in fretta è purtroppo un difetto che non riguarda solo il socialwashing. C'è una tale accelerazione nella comunicazione, tutti si sentono in dovere di comunicare tutto, sempre, qualsiasi cosa, ma la superficialità è un’avversaria dell'agire sostenibile. È sempre meglio, quando c'è un problema o un’opportunità, approfondire e ragionarci.

Leggendo il suo libro ho avuto l'impressione che desse per scontato che dall’altra parte delle aziende ci sia un consumatore attento e informato. Ma sappiamo che non è sempre così. Ha qualche consiglio per diventare consumatori più consapevoli?

Io non amo dare consigli a nessuno, però in effetti chiudo il libro con alcune riflessioni per le aziende ma anche per i consumatori. Per esempio, l'essere disattenti e fare scelte veloci non va bene, bisogna prendersi il tempo per capire. Un metodo è diffidare quando un claim riporta troppi aggettivi positivi oppure affermazioni esagerate, come “100% green”. Possiamo chiedere maggiori spiegazioni alle aziende, andare sui loro siti web e pagine social e cercare di capire fino a che punto la sostenibilità per loro è una strategia consolidata o un'azione tattica. Certo in generale, come individui, non abbiamo né la capacità né gli strumenti per andare a indagare, per cui dobbiamo anche affidarci a soggetti terzi. Penso come esempio al marchio Fairtrade: se lo vedo su un prodotto devo potermi fidare del fatto che quel prodotto non arriva dallo sfruttamento dei lavoratori. Non posso controllarlo io personalmente ma mi auguro che Fairtrade abbia controllato per me.

Tornando alle aziende, ognuna avrà sempre un punto debole. Penso ad alcuni esempi positivi nel libro riferiti a CocaCola, che però noi sappiamo essere un’azienda problematica, tra la produzione di plastica e la vendita di bevande troppo zuccherate. Oppure penso alla grande azienda che produce carne e insaccati: può implementare al proprio interno un bellissimo programma di welfare aziendale, raggiungere la parità di genere, aiutare il territorio, ma il suo business si basa sempre su un'industria tendenzialmente nociva per l'ambiente, che magari sfrutta gli allevamenti intensivi. Come si può uscire da questo paradosso?

Alle aziende si chiede una ragionevole coerenza. La perfezione non è di questo mondo. Pensiamo anche a noi, come individui, quante volte non siamo coerenti: dichiariamo di essere attenti all'ambiente e poi andiamo da H&M a comprare una maglietta a 5 euro, oppure andiamo al supermercato e compriamo le pere importate dall'Argentina. La coerenza sarebbe la cosa più importante. Come in alcuni business, in particolare quelli che hai citato, si possa tenere un equilibrio tra la propria attività, il profitto e l'attenzione all'ambiente sociale è una domanda aperta per cui non c'è una risposta univoca e chiara. Abbiamo parlato anche al Salone della CSR e dell’innovazione sociale di questo sfidare le contraddizioni. L’importante è cercare di trovare un punto di equilibrio che mi permetta una visione olistica, cioè io non posso guardare solo un aspetto: se dichiaro che la sostenibilità è un valore nel quale credo, devo cercare di considerarla in tutte le dimensioni, tra cui anche quella economica, perché, se sono ambientalmente 100% sostenibile ma poi la mia azienda chiude, ovviamente è un fallimento. Una volta trovato l’equilibrio, poi, devo anche mantenerlo nel tempo. E questo credo sia ancora più difficile.

 

In copertina: Rossella Sobrero